HomeMamma e bambinoHomeschooling, studiare a casa: quali rischi per il bambino?

Homeschooling, studiare a casa: quali rischi per il bambino?

La parola all'esperta

Sanihelp.it – Sono oltre 8,6 milioni i ragazzi appena tornati sui banchi di scuola, statale e paritaria. Di questi, 19.571 frequentano la scuola dell'infanzia, 83.232 quella primaria, 65.905 la secondaria di primo grado, 65.950 quella di secondo grado. I docenti, fra organico di diritto (quello stabile) e organico di fatto, ovvero quello convocato in base alle esigenze espresse di anno in anno dalle scuole, soprattutto sul sostegno, sono oltre 800.000.


Ma non per tutti i bambini suonerà la campanella: per alcuni, i cosiddetti homeschoolers, ovvero i minori che non si avvalgono dell’istruzione pubblica né di quella privata, le porte delle aule saranno le stesse di quelle di casa. Si parla di circa 1.500 bambini in Italia, due milioni negli Stati Uniti.

Oltreoceano anche le università hanno iniziato ad adeguarsi a questa tendenza: Harvard, Princeton, Yale e altri 900 istituti universitari nel mondo accettano iscrizioni di homeschoolers. Il fenomeno dell’istruzione parentale da qualche anno ha iniziato a prendere piede anche in altri Paesi europei: a essere istruiti a casa sono 70 mila minori in Inghilterra, 3mila in Francia, 2 mila in Spagna. 

In Canada le famiglie ricevono mille euro all’anno per ciascun figlio per l’acquisto di materiale finalizzato all’istruzione. In Italia una circolare del ministero demanda ai dirigenti scolastici e ai coordinatori didattici la vigilanza sull’adempimento dell’obbligo di istruzione per gli alunni in istruzione parentale.

I genitori quindi sono liberi di tracciare il percorso formativo dai 6 ai 18 anni: alcune famiglie seguono orari giornalieri, utilizzando i testi e programmi scolastici, altre si affidano a un apprendimento più spontaneo. Visite ad aziende agricole bio, laboratori di pittura o scrittura, ore all’aria aperta ad osservare il comportamento degli animali, sono solo alcune delle attività alternative proposte.

Su questo metodo educativo però gli esperti sono divisi. Da una parte i seguaci del tedesco Arno Stern, che per primo ha teorizzato il Gioco del dipingere, una pratica educativa che favorisce la totale libertà di espressione attraverso laboratori di pittura spontanea, unica via per raggiungere la piena realizzazione in fase adulta. Di opinione opposta coloro che sostengono che i bambini e gli adolescenti abbiano bisogno di confrontarsi con un ambiente esterno e una forma autorevole alternativa ai genitori, ovvero gli insegnanti.

«I bambini che non si approcciano al mondo della scuola e a un contesto sociale esterno alla famiglia subiranno le ripercussioni psicologiche ed emotive dovute all’incapacità di confrontarsi con la frustrazione e gli insuccessi. Saranno bambini iperprotetti da una figura familiare costantemente presente, incapaci di sperimentare la scoperta del mondo in modo autonomo. E la mancata conoscenza delle differenze sociali, economiche e religiose non permetterà loro di strutturare un pensiero critico – sostiene Miolì Chiung, psicologa esperta in disturbi dell’età evolutiva e dell’apprendimento – Circostanza imprescindibile per migliorare l'autostima dei bambini è quella di imparare a gestire gli ostacoli, i conflitti, i problemi attraverso strategie di problem solving.

Un'altra chiave è quella di conoscere e accogliere la disabilità in un'ottica inclusiva, cosa che a casa non risulta possibile poiché mancano le condizioni necessarie per farlo. La scuola, nonostante le sue grandi pecche, è la prima palestra sociale per i bambini. Per permettere a un bambino di crescere emotivamente, dobbiamo metterlo nelle condizioni di sperimentare tutto il corollario di stili comunicativi, relazionali e interattivi possibili».

Alcuni casi di cronaca nei Paesi anglosassoni hanno poi evidenziato come l’educazione parentale sia un escamotage utilizzato da alcuni genitori per proteggere i figli da episodi di bullismo o dopo un’esperienza negativa con una scuola tradizionale: «Anche in questo caso mi sembra errato affrontare un problema evitando di mandare il bambino a scuola. Si tratta di una strategia che non fa che rimandare i problemi e restituisce una visione errata sul come affrontarli. Molto più utile sarebbe battersi per interventi di prevenzione nelle scuole e corsi di formazione a insegnanti e ragazzi sul rispetto reciproco e l’assertività», conclude la psicologa.

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