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Quali sono gli effetti della malattia di Alzheimer sul cervello?
I vari studi effettuati negli hanno fatto luce su alcuni meccanismi implicati nel danno cerebrale che si è riscontrato in questa malattia.
Le lesioni che si osservano nel tessuto cerebrale colpito dalla malattia sono sostanzialmente di due tipi: i grovigli neurofibrillari e le placche amiloidi.
Spieghiamo meglio nel dettaglio come avviene la formazione dei grovigli neurofibrillari: i nostri neuroni posseggono prolungamenti detti neuriti sostenuti da strutture chiamate microtubuli, tenuti insieme da una proteina chiamata proteina tau.
In alcuni soggetti, gli enzimi che permettono alla proteina tau di fissarsi al microtubulo non svolgono la loro funzione, provocando la disgregazione dei microtubuli, l’accorciamento del neurite e infine la morte del neurone.
Le placche amiloidi invece possono causare la formazione di placche senili o colpire i vasi sanguigni del cervello, causando la cosiddetta angiopatia amiloide.
Ma come si forma una placca? Nelle cellule cerebrali è presente l’App, che è un precursore della proteina amiloide e serve al normale funzionamento dei neuroni. Alcuni enzimi detti beta e gamma secretasi tagliano questa molecola in diversi frammenti, uno dei quali è detto A-beta. Se la proteina A-beta non viene adeguatamente rimossa dal nostro cervello, si accumula e si aggrega prima in fibrille e poi in placche che sono in grado di interrompere i collegamenti fra neuroni e di distruggere i neuroni stessi.
Questo malfunzionamento neurale è alla base della malattia di Alzheimer, che si manifesta con queste caratteristiche:
Quando qualcuno della propria famiglia contrae la malattia di Alzheimer, chiedersi se si tratta di una patologia ereditaria è un dubbio lecito.
La risposta, però, è negativa: la malattia di Alzheimer non è normalmente ereditaria, e avere nella propria famiglia alcuni malati di Alzheimer non significa essere destinati ad ammalarsi.
La causa della patologia, infatti, nella maggioranza dei casi non è di origine genetica.
Tuttavia, è nota ora l'esistenza di un gene che può influenzare questo rischio.
Questo gene si trova nel cromosoma 19, ed è responsabile della produzione di una proteina chiamata apolipoproteinaE (ApoE). Esistono tre tipi principali di tale proteina, uno dei quali(l'ApoE4) - sebbene poco comune - rende più probabile il verificarsi della malattia.
Non si tratta della causa della malattia, ma ne aumenta la probabilità.
Per esempio, una persona di cinquant'anni portatrice di questo gene avrebbe 2 probabilità su 1000 di ammalarsi invece del consueto 1 per 1000, ma può nella realtà non ammalarsi mai. Soltanto nel 50% dei malati di Alzheimer si trova la proteina ApoE4, e non tutti coloro che hanno tale proteina presentano la malattia.
Infine, in un numero estremamente limitato di famiglie (alcune decine in tutto il mondo), la malattia di Alzheimer si presenta col carattere di malattia genetica dominante. I membri di tali famiglie possono ereditare da uno dei genitori la parte di DNA (struttura genetica) che causa la malattia. Mediamente, la metà dei figli di un genitore malato erediterà la malattia, che in questo caso avrà un esordio relativamente precoce: tra i 35 e i 60 anni.
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Fare attività fisica, anche senza strafare, riduce notevolmente il rischio di alzheimer tra gli over 65. È sufficiente fare qualche escursione a piedi in campagna oppure brevi sessioni di aerobica, ma anche nuoto e stretching per ridurre il rischio del 40%.
È quanto si afferma in uno studio condotto da ricercatori del Group Health Cooperative di Seattle e della University of Washington e pubblicato sugli Annals of Internal Medicine.
Secondo gli esperti l’attività fisica ha effetti benefici anche nel caso in cui il processo di demenza senile è già iniziato: già con 15 minuti di camminata tre volte a settimana si riscontrano effetti tangibili nel ritardare la progressione della malattia.
Sembra che il beneficio sia dovuto al fatto che la ginnastica migliora e protegge la funzione nervosa stimolando il flusso di sangue in aree del cervello importanti per memoria e funzioni cognitive, le capacità attaccate dalla demenza.
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Diversi studi hanno dimostrato che esiste una relazione ben precisa fra l’azione dei radicali liberi e l’invecchiamento, legato all’insorgenza di alcune patologie cronico-degenerative come il cancro e l’aterosclerosi.
Per contrastare l’azione ossidativa dei radicali liberi l’organismo attiva una serie di processi enzimatici e ricorre ad alcune sostanze nutrienti e non nutrienti con attività antiossidante. Ecco perché la nutrizione svolge un ruolo essenziale nel mantenimento efficace delle difese antiossidative.
I radicali liberi sono composti instabili e assai reattivi, dalla emivita brevissima. Prodotti di continuo dal nostro organismo come conseguenza dei normali processi metabolici, sono responsabili del danno ossidativo a carico di macromolecole biologiche, come DNA, lipidi, carboidrati e proteine.
Ecco nel dettaglio in cosa consiste tale danno ossidativo:
Nel numero di febbraio del Journal of the American Medical Association sono pubblicati i risultati di uno studio condotto su un campione di più di 800 persone scelte tra suore, preti e fedeli cattolici di età superiore ai 65 anni che partecipano allo Studio sugli Ordini Religiosi negli Stati Uniti.
Il dottor Robert S. Wilson del Rush Alzheimer Disease Center di Chicago e i suoi collaboratori hanno riscontrato che le persone più mentalmente attive avevano una riduzione del rischio di ammalarsi di morbo di Alzheimer pari al 47%.
Nelle persone invece che si dimostravano mentalmente attive ma in maniera più moderata, la riduzione del rischio di ammalarsi era del 28%.
Entrambi i gruppi hanno quindi dimostrato una significativa riduzione del rischio se confrontati con persone che esercitavano in modo minore la mente.
I parametri presi in considerazione dai ricercatori comprendevano sette attività comuni come guardare la televisione, ascoltare la radio, leggere un quotidiano o una rivista oppure un libro, giocare a carte o dama o risolvere parole crociate, visitare i musei.
Il tempo dedicato dai partecipanti a ogni attività veniva riportato su una scala con punteggio da 1 a 5. Il minimo segnava lo svolgimento dell’attività una sola volta all’anno e il punteggio massimo veniva assegnato per uno svolgimento quotidiano dell’attività.
Dall’esame della scala si è evidenziato come il rischio di contrarre l’Alzheimer diminuiva del 33% per ogni incremento di un punto nella scala di valutazione. Durante lo studio, durato 5 anni, 111 persone hanno sviluppato questa malattia.
Secondo la dottoressa Elisabeth Koss del National Institute on Aging (NIA), l’agenzia governativa che ha sovvenzionato la ricerca, questo studio aggiunge nuove prove evidenti del legame esistente tra incremento delle attività cognitive e ridotto rischio di malattia di Alzheimer. Sono auspicabili future indagini per studiare se la prevenzione della malattia invalidante possa essere condotta con un aumento dell’attività intellettiva. L’interessante teoria è quella della «memoria: usala o la perdi», ovvero uno scarso utilizzo della memoria, non svolgendo le attività che aiutano a tenerla in esercizio, potrebbe portare alla sua perdita progressiva.
Nella realtà, nonostante i risultati promettenti della ricerca condotta, non si è ancora trovata una spiegazione biologica del come e del perché l’attività mentale possa impedire all’Alzheimer di svilupparsi. Un’ipotesi potrebbe essere la constatazione che alcune persone nei primissimi stadi della malattia, quindi prima che i sintomi caratteristici siano rilevabili, diventano meno propensi a svolgere queste comuni attività.
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Il pigmento che dona al curry la sua caratteristica tonalità gialla può anche bloccare le placche che si formano in un cervello colpito da morbo di Alzheimer.
Gli scienziati hanno scoperto che se a vecchi topi da laboratorio viene somministrata una dieta contenente curcumino, il componente grezzo che impartisce il colore giallo al curry, si riducono depositi della proteina denominata beta-amiloide che sono la causa principale del danneggiamento dei processi mnemonici. Inoltre il curcumino se associato in laboratorio a fibre di proteina beta-amiloide umana ha portato al blocco della formazione di placche proteiche.
Presso l’Università della California sono pronti a dare il via a nuovi test sull’uomo, il grande quesito è capire quali sono le dosi per combattere l’Alzheimer e il grado di nocività nelle persone anziane.
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La malattia di Alzheimer è una patologia dell’età adulta causata da una progressiva perdita di neuroni della corteccia cerebrale.
La degenerazione di queste cellule del cervello porta ad una forma di demenza, da cui dipendono una serie di sintomi premonitori. Ecco quali sono:
Non esiste nessuna prova sicura che un particolare gruppo di persone sia candidato a sviluppare la malattia di Alzheimer. Tuttavia, confrontando le caratteristiche dei malati con quelle della popolazione sana, i ricercatori hanno prospettato un certo numero di fattori di rischio, da cui si può evincere l'identikit del potenziale malato.
Età
È affetta dalla malattia di Alzheimer circa una persona su venti tra quelle che hanno superato i 65 anni di età, e meno di una persona su mille al di sotto di tale età. Tuttavia, anche se col passare degli anni le persone tendono a perdere la memoria, la stragrande maggioranza degli individui sopra gli ottant'anni è intellettualmente integra. La vecchiaia, quindi, di per se stessa non è causa di tale malattia, anche se i problemi legati all'età come l'arteriosclerosi possano essere fattori di rischio importanti. Inoltre, poiché oggi si vive più a lungo che in passato, il numero di persone affette da malattia di Alzheimer o da altre forme di demenza sembra destinato ad aumentare.
Sesso
Da alcuni studi risulta che il numero di donne affette da tale malattia è sempre stato superiore al numero degli uomini. Tale dato può essere, tuttavia, ingannevole, perché le donne vivono mediamente più a lungo degli uomini. Ciò significa che, a parità di durata della vita e in assenza di altre cause di morte, il numero di uomini affetti da malattia di Alzheimer equivarrebbe al numero delle donne.
Fattori genetici
In un numero estremamente limitato di famiglie, la malattia di Alzheimer si presenta col carattere di malattia genetica dominante. Inoltre è stato scoperto un collegamento tra il cromosoma 21 e la malattia di Alzheimer. Poichè la sindrome di Down è causata da un'anomalia su questo cromosoma, i soggetti Down hanno maggiori probabilità di ammalarsi se raggiungono la mezza età, anche se non appaiono tutti i sintomi della malattia.
Traumi cranici
Ci sono fondati motivi per ritenere che una persona che ha ricevuto un violento colpo alla testa possa essere a rischio di ammalarsi di Alzheimer. Il rischio è maggiore se al momento del colpo la persona ha più di cinquant'anni, ha un gene specifico (apoE4) e ha perso conoscenza subito dopo il colpo.
Altri fattori
Non esiste nessuna prova sicura che un particolare gruppo di persone sia candidato a sviluppare la malattia. Razza, professione, posizione geografica, livello socio-economico non sono fattori determinanti.
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Quando si invecchia, il normale processo fisiologico prevede un calo dell’acuità visiva, di quella acustica e delle altre modalità sensoriali che non necessariamente diventano invalidanti.
L’attività motoria diviene più difficoltosa e le capacità intellettive rallentano, in particolare la memoria.
Per questo è importante non trascurarsi, e fare attenzione ai molteplici segnali inviati dall'organismo. Uno di questi è la perdita di memoria: a volte può indicare semplicemente stress, depressione o stanchezza, ma può anche essere la spia di un malfunzionamento della tiroide, di una carenza vitaminica, di uno sbalzo della pressione arteriosa, del diabete poco controllato, e in alcuni casi dell'insorgere della malattia di Alzheimer.
Anche la depressione o l’ansia possono manifestarsi con un disturbo della memoria e di altre funzioni cognitive, e lo stesso vale per la difficoltà ad orientarsi nel tempo e nello spazio, la fatica a trovare le parole per definire gli oggetti e la dimenticanza dei nomi.
Non sempre si tratta di Alzheimer: potrebbe anche essere un disturbo di memoria isolato e non progressivo, oppure una forma di demenza che, se adeguatamente trattata, regredisce in breve tempo.
La cosa migliore, quindi, è parlarne subito con il medico, e sottoporsi a una visita specialistica geriatrica o neurologica che prevede un iter appositamente studiato per tentare di arrivare ad una diagnosi non sempre facile e mai immediata.
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Diagnosticare la malattia di Alzheimer non è facile: non esiste un test specifico, quindi generalmente si procede per esclusione, accertando l'assenza di altre malattie dopo un attento esame delle condizioni fisiche e mentali, che viene effettuato con questi strumenti:
Anamnesi e visita medica
Dopo aver raccolto informazioni sul comportamento, come eventuali difficoltà a vestirsi, lavarsi, gestire il danaro, mantenere gli appuntamenti, viaggiare da solo, fare il proprio lavoro e usare gli elettrodomestici, il malato viene generalmente sottoposto ad una visita neuropsicologica, per valutare eventuali problemi di memoria, linguaggio, attenzione. Spesso viene impiegato un esame chiamato Mini-Mental State Examination (MMSE), che consiste nel sottoporre il malato a domande del tipo: «Che giorno è? In che città ci troviamo? Come si chiama questo?" (mostrando un orologio)». Un'altra parte del test consiste nel far eseguire una serie di operazioni in base ad istruzioni semplici.
Esami di laboratorio
Può essere opportuno effettuare una serie di esami di laboratorio, ed esempio esame del sangue e delle urine, per escludere l'esistenza di altre malattie che potrebbero spiegare la demenza, o di malattie che potrebbero aggravare una pre-esistente malattia di Alzheimer. Inoltre, sono stati sviluppati negli ultimi anni diversi strumenti per osservare l'encefalo, che permettono di fornire immagini del cervello in vivo, rivelando eventuali differenze tra il cervello delle persone sane e quello dei malati di Alzheimer.
È il caso della risonanza magnetica, che consente di ottenere un'immagine della struttura del cervello molto particolareggiata e di riscontrare i cambiamenti di una determinata parte del cervello; della TAC (Tomografia assiale computerizzata), che misura lo spessore di una parte del cervello che rapidamente si assottiglia nei pazienti affetti da Alzheimer; della SPECT (tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo), utilizzata per misurare il flusso del sangue nel cervello, e della PET (tomografia a emissione di positroni), utilizzata nei centri di ricerca, che può evidenziare cambiamenti nel funzionamento del cervello del malato di Alzheimer.
Si parla invece di “malattia di Alzheimer probabile” se la visita, gli esami del sangue e quelli strumentali indicano che c’è uno stato demenziale, ma non vi è il riscontro di un disturbo concomitante che potrebbe essere responsabile, anche in parte, dei sintomi.
Nonostante questi strumenti, secondo i criteri internazionali la diagnosi di Malattia di Alzheimer certa viene invece effettuata solo «post mortem» ossia tramite autopsia. E’ infatti l’unico modo che il medico ha per verificare l’esistenza all’interno del cervello delle lesioni tipiche di questo genere di demenza, altrimenti non visibili.
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La malattia di Alzheimer è una sola, ma esistono tre tipi di diagnosi diverse.
La prima è la malattia di Alzheimer possibile, basata sull'osservazione di sintomi clinici e sul deterioramento di due o più funzioni cognitive (per esempio memoria, linguaggio o pensiero) in presenza di una seconda malattia che non è considerata la causa della demenza, ma che rende comunque la diagnosi di malattia di Alzheimer meno sicura.
La malattia di Alzheimer viene invece qualificata come probabile sulla base di sintomi clinici e sul deterioramento di due o più funzioni cognitive, ma in assenza di una seconda malattia.
Infine, la presenza della malattia di Alzheimer viene dichiarata certa in seguito all'identificazione delle caratteristiche placche senili e dei gomitoli neuro-fibrillari nel cervello.
È questo l'unico modo sicuro per confermare con certezza la diagnosi di malattia di Alzheimer.
Per questa ragione, la terza diagnosi, quella di malattia di Alzheimer certa, può essere formulata soltanto mediante biopsia del cervello, o dopo che è stata effettuata un'autopsia.
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Le vere cause della malattia di Alzheimer, che provoca uno stato di demenza progressiva, non sono ancora state scoperte. Le ipotesi al riguardo sono molteplici, come pure le sperimentazioni farmacologiche, alla ricerca di un rimedio per questo male. La perdita di memoria, e il degrado cognitivo che ne deriva, è motivo di grande sofferenza per chi è ai primi stadi della malattia; in questa fase il malato comprende cosa gli sta capitando e si accorge anche di causare gravi disagi alla famiglia che dovrà accudirlo.
I tentativi terapeutici seguono parallelamente le ipotesi patogenetiche; ipotizzato un agente causale, si cerca un presidio farmacologico che potrebbe agire debellando la malattia.
Al momento si seguono due approcci farmacologici eziopatogenetici: farmaci colinergici e farmaci non colinergici.
Il primo è basato sull’ipotesi che alla base della malattia vi sia un deficit di acetilcolina, un importante neurotrasmettitore cerebrale; il secondo approccio dà invece importanza agli aspetti patologici tipici della malattia, ossia il deposito di beta-amilodide nel cervello.
Per contrastare il deficit colinergico, gli studiosi stanno sperimentando nuove medicine in grado di rimpiazzare l’acetilcolina mancante; questi farmaci, chiamati anticolinesterasici, agiscono inibendo l’enzima che degrada l’acetilcolina e ne provoca l’accumulo. Attualmente negli Stati Uniti, in Giappone ed in Europa si stanno studiando gli effetti di almeno dieci molecole. Dai risultati emersi si è rilevato che questi farmaci sono utili nel rallentare la malattia, ma, fino a ora, non hanno dimostrato effetti curativi.
Altre sostanze allo studio sono gli agonisti muscarinici, agenti in grado di stimolare il rilascio dell’acetilcolina. Queste sostanze, seppur molto interessanti, hanno una scarsa selettività e oltre a agire sul cervello, provocano effetti collaterali a carico di altri organi bersaglio come il cuore. I tentativi volti a impedire l’accumulo di beta-amiloide, che si basano essenzialmente sulla ricerca di un vaccino, sono ancora in fase sperimentale. Il vaccino, potrebbe rappresentare una validissima alternativa, o ancor meglio un valido completamento, ai farmaci anticolinesterasici già attualmente in uso.
Altre sostanze che potrebbero essere utili nel trattamento della malattia di Alzheimer sono gli estrogeni, gli antinfiammatori e gli antiossidanti. Gli estrogeni sembrano avere un effetto protettivo sui neuroni e sembrano agire potenziando l’attività colinergica. Gli antiossidanti e gli antinfiammatori, in particolare quelli non steroidei, potrebbero ridurre il danno cerebrale implicato nello sviluppo della malattia. Secondo recenti acquisizioni sembra che alla base delle lesioni tipiche dell’Alzheimer vi possa essere sia un accumulo di radicali liberi che un processo infiammatorio.
La terapia attuale non si avvale di farmaci risolutivi della malattia, ma di sostanze che ne rallentano la progressione. La ricerca sui metodi per impedire l’accumulo di beta-amiloide potrà fornire un’arma da associare ai farmaci anticolinesterasici in modo da attaccare il morbo su più fronti.
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Ammalarsi di Alzheimer significa molte cose: significa invecchiare prima del tempo, perdere la memoria, smarrirsi in luoghi un tempo familiari, perdere la conoscenza di parole, suoni e immagini. E significa anche sapere di andare inesorabilmente incontro a un completo quadro demenziale.
I farmaci sono spesso l’unica possibilità di sollievo per chi ne soffre e per i familiari. Fino a poco tempo fa, però, i malati di Alzheimer avevano a disposizione solo farmaci adatti per le forme lievi-moderate della malattia. Per le forme più gravi nulla da fare.
Oggi invece esiste un farmaco, la Memantina, indicato appositamente per gli stadi più severi.
Si tratta di un medicinale registrato con procedura centralizzata dall’Agenzia Europea (EMEA) già dal maggio 2002, e presente da allora in tutta Europa e negli Stati Uniti.
Il principio su cui si basa è quello di contrastare l’ipereccitazione dei ricettori NMDA esercitata dal glutammato, che appare presente in concentrazioni patologicamente elevate nella malattia di Alzheimer.
Memantina è disponibile anche in Italia, come ha annunciato Ralph Fassey, amministratore delegato della multinazionale farmaceutica che lo produce, la Lundbeck Italia. Che ha aggiunto: «Memantina è il primo e unico farmaco che ha ricevuto l’indicazione ufficiale per il trattamento della malattia di Alzheimer da moderatamente severa a severa, sia in Europa che negli Stati Uniti».
Uno studio condotto su 252 pazienti con forma moderata-grave della malattia di Alzheimer ha dimostrato che dopo 10 mesi di trattamento con Memantina 20 mg, i malati hanno ottenuto un significativo miglioramento della funzione cognitiva nelle attività giornaliere, e ridotto la necessità di assistenza.
Gli effetti collaterali del farmaco hanno un’incidenza minima (meno del 2%), e sono cefalea, spossatezza, vertigini, confusione, o in casi più rari ansia, ipertonia, vomito, infezioni della vescica e aumento della libido.
Il medicinale non va somministrato durante gravidanza e allattamento, e vanno tenuti sotto controllo i pazienti che soffrono di epilessia e di insufficienza renale o cardiaca.
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«Possono vivere meglio i malati di Alzheimer?». È questa la domanda a cui hanno danno dato risposta, ieri a Roma i rappresentanti delle Istituzioni, del mondo medico-scientifico e dei pazienti attraverso la presentazione delle Linee guida italiane sull'Alzheimer.
Si tratta di un punto di riferimento importante per la cura della malattia di Alzheimer nel suo complesso: l’approccio di base è che, in attesa e nella speranza che la ricerca identifichi la cura, si possa garantire al malato la miglior cura possibile e la miglior qualità di vita.
Diagnosi tempestiva, trattamento farmacologico costante e completo, terapie non farmacologiche e rete di servizi: tutti questi elementi messi insieme permetterebbero al malato di gestire il decorso della malattia e al caregiver, cioè chi se ne occupa, di non subire tutto il peso di un malato di Alzheimer del tutto abbandonato solo alla sua assistenza.
L’importante documento, prodotto grazie al lavoro di un team tutto italiano di epidemiologi, geriatri, neurologi e psichiatri, è frutto di un lavoro basato sull’evidenza scientifica ma anche sulle informazioni specialistiche empiriche raccolte da un gruppo multidisciplinare di importanti opinion leader di fama internazionale, membri principalmente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, ma anche dalle due associazioni nazionali per la malattia di Alzheimer che rappresentano i pazienti e le loro famiglie: l’AIMA (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer) e la Federazione Alzheimer Italia.
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La Carta dei Diritti del Malato di Alzheimer è stata approvata nel 1999 dalle Assemblee Generali di Alzheimer's Disease International (A.D.I.), Alzheimer Europe e Alzheimer Italia:
I malati di Alzheimer e le loro famiglie non sono più soli: per aiutarli a superare le difficoltà della malattia 13 anni fa è nata la Federazione Alzheimer Italia, con la missione di migliorare la qualità della vita dei pazienti e dei loro cari.
Si tratta della maggiore organizzazione nazionale non profit dedicata a questa patologia: riunisce 47 associazioni locali che nel nostro paese sono impegnate nell’assistenza ai malati di Alzheimer e ai loro familiari.
Gli obiettivi della Federazione sono:
Possono essere tante le cause che provocano ansia e paura. Per alcuni l'ansia può essere dovuta alla confusione, per altri può essere il risultato di allucinazioni o deliri, per altri ancora può essere la risposta al clima che si respira in famiglia.
Molto più semplicemente il meccanismo di produzione dell'ansia può essere quello derivante dalle normali preoccupazioni dovute alla vita di tutti i giorni.
Purtroppo non sempre è possibile determinare esattamente la causa dell'ansia o della paura e questo, per noi che volgiamo aiutare il malato, può provocare in noi una sensazione di impotenza. Quello che possiamo sicuramente fare è offrire sicurezza, affetto e comprensione. Dovremo inoltre sforzarci di ridurre le probabilità che la cosa si ripeta. Ecco alcuni consigli:
Come affrontare l’ansia e la paura
I malati di demenza si comportano spesso in modo aggressivo, sia verbalmente che fisicamente. Va detto che l’aggressività più comune è quella verbale. Questo comportamento può metterci in grave difficoltà emotiva e pratica. È sempre importante ricordare che il comportamento aggressivo è dovuto alla malattia più che all'individuo.
Questi cambiamenti d’umore e di comportamento non risparmiano nessuno. Anche la persona più dolce e tranquilla può comportarsi in modo aggressivo. Ecco perché spesso capita di rimanere sconvolti davanti a tali manifestazioni.
Le cause che possono scatenare questa aggressività sono la frustrazione e l’ansia e soprattutto la paura. L’aggressività nella maggior parte dei casi è quindi una naturale reazione difensiva contro la falsa percezione di un pericolo o di una minaccia. Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, bisogna però cercare di ridurre al minimo le conseguenze per sé e per gli altri. ecco alcuni consigli:
Come affrontare un comportamento aggressivo
Sotto questo punto di vista una delle prime problematiche che saltano agli occhi è come affrontare la perdita di memoria, uno dei sintomi più comuni della malattia di Alzheimer. Questo segnale è spesso il primo che induce a sospettare che qualcosa non va e a rivolgersi a un medico.
La memoria che viene più colpita sembra essere quella dei fatti recenti. Per chi si relaziona al malato la perdita di memoria può essere irritante (ad esempio quando il malato dimentica il nostro nome) o motivo di preoccupazione (ad esempio quando il malato dimentica il gas acceso). Anche il malato può esserne estremamente turbato, manifestando confusione, umiliazione e vergogna, specialmente allo stadio iniziale.
Per fortuna, è possibile fornire al malato di demenza un'efficace assistenza pratica e un valido supporto emotivo che aiutano a ridurre le conseguenze negative della perdita di memoria.
Come affrontare la perdita di memoria
In generale quando una persona si ammala di demenza comincia a usare un linguaggio meno complesso, prende meno parte alla conversazione e si rinchiude progressivamente in se stessa fino al punto di smettere completamente di parlare.
Questo diventa un grosso problema anche per chi assiste, perché potrà crescere da un lato la frustrazione di non essere in grado di aiutare la persona malata e dall'altro lo sconcerto per il suo comportamento.
Ci sono numerose soluzioni pratiche che possiamo adottare per migliorare la comunicazione mantenendo sempre equilibrio e naturalezza: il nostro atteggiamento sereno e l'incoraggiamento sono gli elementi più importanti.
Ecco dieci importanti consigli