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Nei paesi industrializzati il carcinoma mammario è, per incidenza e mortalità, al primo posto fra i tumori maligni della popolazione femminile.
Non solo: costituisce anche la causa più frequente di morte per malattia in generale nelle donne comprese nella terza e quarta decade della vita.
Oggi nei paesi dell’Unione Europea si ammalano di tumore al seno più di 300.000 donne ogni anno, mentre in Italia annualmente 7 donne su 100 manifestano un cancro alla mammella durante il corso di una vita normale, ovvero entro gli 80 anni d’età.
Il carcinoma mammario è una patologia oncologica generata dalla moltiplicazione incontrollata di un gruppo di cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in maligne e, dopo essersi staccate dal tessuto che le ha generate, invadono i tessuti circostanti e, nel tempo, anche altri organi del corpo.
Infatti, a differenza del tumore benigno, che una volta asportato non crea più problemi perché le sue cellule non si espandono al di fuori della zona d’origine, le lesioni maligne con il passare del tempo tendono a diffondersi ad altri organi e a distruggerli attraverso un processo chiamato metastasi.
La metastasi rappresenta la fase più avanzata della progressione tumorale, costituendo purtroppo la reale causa di morte.
Rispetto all’estensione della malattia si possono classificare tre stadi che hanno significato prognostico e servono per individuare il trattamento più idoneo.
Questi stadi si identificano con tre sigle:
Le cause del tumore al seno sono ancora sconosciute, anche se qualcosa è stato scoperto circa i cosiddetti fattori di rischio, cioè elementi che si ritengono in qualche modo implicati nell’insorgenza del cancro.
Innanzitutto, il carcinoma del seno è un tumore ormonosensibile, vale a dire che sia nell’insorgenza sia nello sviluppo intervengono gli ormoni, in particolare l’estrogeno, che stimola le cellule della mammella a dividersi più rapidamente, aumentando il rischio di crescita cellulare incontrollata caratteristica del cancro.
Per questo motivo si è parlato della regolazione ormonale come promotore tumorale: si considera cioè un fattore determinante per lo sviluppo della malattia la prolungata esposizione agli estrogeni.
Terapia ormonale per la menopausa. Poiché la maggioranza delle terapie ormonali sostitutive e dei contraccettivi orali sono a base d'estrogeno sintetico, non c'è da stupirsi che queste pratiche siano associate all' aumento di rischio di cancro della mammella.
Secondo la dottoressa Giovanna Gatti, medico assistente della Direzione Scientifica dell’IEO (Istituto Europeo di Oncologia), «alcuni studi avrebbero effettivamente confermato un piccolo aumento di rischio di carcinoma della mammella in donne che facciano uso prolungato della terapia ormonale sostitutiva per la menopausa.
Questa terapia ha però anche molti meriti, soprattutto in donne con menopausa aggravata da sintomi. Per questa ragione non va sconsigliata di principio, ma va piuttosto adottata in presenza di sintomi oggettivi da menopausa, sotto attento controllo senologico e ginecologico».
In effetti, anche se è ormai assodato l’aumento del rischio relativo quando si assumono progestinici per lunghi periodi, è anche vero che tale aumento è piccolo e dopo 10 anni dall’ultima assunzione ormonale scompare.
Anticoncezionali. Per quanto riguarda l’uso di anticoncezionali, il discorso è identico: benché alcuni studi mostrino che le donne che fanno uso della pillola hanno maggiore probabilità di sviluppare la malattia, non ci sono prove sulla relazione fra l’uso di contraccettivi orali e carcinoma mammario.
In ogni caso si sconsiglia l’utilizzo della pillola per lungo tempo nel periodo perimenopausale e in periodo antecedente alla prima gravidanza in donne con displasia della mammella o con lesioni di iperplasia atipica. Tali lesioni, seppure benigne, potrebbero degenerare fino a determinare l’insorgenza di un tumore maligno.
Durata dell’età fertile. La massima correlazione fra estrogeno e cancro della mammella si manifesta nelle donne che mostrano sintomi da eccesso di estrogeno, condizione che molti medici definiscono "dominanza estrogenica" e la cui manifestazione più comune è la sindrome premestruale, in particolare se alla stessa si associano sintomi quali ipersensibilità della mammella e ritenzione idrica.
Sempre per quanto concerne l’influenza ormonale, esistono tre date cruciali per stabilire il profilo di rischio di una donna:
Dati recenti indicano che esiste un rischio aumentato di carcinoma mammario nelle persone con parenti di primo grado (madre, sorella, nonna o zia, sia da parte materna sia paterna) affetti da tumore della mammella, dell'ovaio, dell'endometrio o della prostata.
In questi casi si è parlato di predisposizione genetica: geni potenzialmente responsabili sono il BRCA1 e il BRCA2, che si trovano sul cromosoma 3 e sul cromosoma 17 e che innalzano il rischio complessivo di sviluppare un cancro al seno di circa 10 volte.
Cosa ne pensa la dottoressa Giovanna Gatti, dell’IEO di Milano?
«Esiste una quota minoritaria di casi di carcinoma della mammella cosiddetti "genetici", cioè legati a mutazioni genetiche che si possono trasmettere nella stessa famiglia.
In realtà la grande maggioranza dei casi di tumore mammario non è legata ai due oncogeni BRCA 1 e BRCA 2, che rappresenta solo il 5-10% di tutte le neoplasie mammarie.
In pratica uno, due o anche tre casi di carcinoma della mammella nella stessa famiglia non configurano un rischio aumentato: le famiglie con numerosi di casi di carcinoma della mammella e/o dell’ovaio in parenti di primo grado possono teoricamente avere un rischio più alto, ma tale rischio va valutato con gli esperti».
In pratica, rischio aumentato non significa ereditarietà.
È comunque fondamentale che le donne con una storia familiare pesantemente positiva si sottopongano alle indagini genetiche per pianificare correttamente la loro prevenzione personale.
Invece per quanto riguarda i controlli annuali consigliati attualmente, questi «sono ugualmente validi per tutte le donne, al di là della loro "storia" genetica», continua la dottoressa.
«Se davvero esiste un rischio molto elevato legato all’ereditarietà, documentato da un’analisi quantitativa del rischio, si possono personalizzare i controlli a giudizio del medico di riferimento».
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Aumento dell’età. «Con l’avanzare dell’età aumenta l’incidenza del carcinoma della mammella», dice la dottoressa Giovanna Gatti, dell'IEO. «Se la probabilità di malattia per una donna sotto i 40 è del 4/5 %, negli anni immediatamente successivi il rischio sale al 25 %.
Il numero più alto di carcinomi della mammella si ha dopo la menopausa (anche se più lentamente dopo il climaterio), per una serie di ragioni dovute all’involuzione della ghiandola mammaria e al tempo di esposizione agli estrogeni.
Ma in realtà si sta assistendo a un relativo aumento dei casi di tumore mammario in età giovane e molto giovane: per questa ragione i controlli annuali sono da raccomandare fortemente a tutte le donne».
Alimentazione scorretta e abuso di alcol. Il collegamento tra abitudini alimentari e incidenza della malattia non sembra essere così stretto come per le altre forme tumorali.
Tuttavia si è notato che un’alimentazione ipercalorica e basata su farine eccessivamente raffinate e su grassi saturi di origine animale, come quella prevalente nei paesi industrializzati, può incidere sull’insorgenza della malattia.
Obesità. L’obesità, soprattutto dopo la menopausa, costituisce un fattore di rischio, in quanto il tessuto adiposo è una fonte di produzione di estrogeni che potrebbero in qualche modo stimolare la ghiandola ormonale in modo eccessivo.
Radiazioni ionizzanti. Secondo alcuni studi l’esposizione ai raggi X per la cura di tumori vicini alla mammella (per esempio alla tiroide e ai linfomi) è pericolosa, mentre non sono considerate a rischio le dosi radioattive assorbite dalle donne durante la mammografia di controllo eseguita con apparecchiature recenti.
Dice la dottoressa Gatti: «Le radiazioni X possono, a distanza di molti anni, dare luogo ad alcune forme tumorali, ma non si tratta di solito di carcinoma della mammella».
Comunque, anche nell’eventualità di un carcinoma radioindotto, mediante la mammografia sarebbe possibile una diagnosi precoce e una cura tempestiva.
Recidività. Infine, pare che un precedente carcinoma alla mammella possa aumentare le probabilità di recidive allo stesso seno o all’altro.
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Il Codice europeo contro il cancro afferma che «adottando uno stile di vita sano è possibile evitare alcuni tipi di cancro e migliorare lo stato di salute».
Difatti, una volta individuati i presunti fattori di rischio del tumore al seno, si può stilare una sorta di comportamento preventivo:
Ormai è appurato: per scoprire e curare per tempo i tumori alla mammella è fondamentale sottoporsi periodicamente a una serie di esami di routine, già a partire dai 18 anni.
Questi test permettono di salvaguardare la salute della donna dall’insorgenza di tumori non solo al seno, ma anche all’utero, e di altre malattie quali la trombosi.
Ma quali sono gli esami da fare alle varie età? E ogni quanto è opportuno ripetere i controlli?
18 ANNI: è l'età in cui generalmente si colloca l’inizio dell’attività sessuale.
- Contraccezione: in presenza di storia familiare positiva per eventi trombotici, oltre ai comuni esami "per pillola", sarebbe opportuno fare uno screening per trombofilia prima di iniziare l’assunzione di estroprogestinici, la cui principale controindicazione è appunto legato all’aumento del rischio tromboembolico. L'esame non è di routine, infatti è costoso e sono pochi i laboratori in grado di eseguirlo.P
- Pap test: è il test di screening del carcinoma del collo dell’utero che viene effettuato con un prelievo di tessuto, successivamente esaminato. Va eseguito solo dopo che è iniziata l’attività sessuale in quanto il cancro del collo dell’utero è da considerarsi malattia sessualmente trasmessa. Per questo l'esame va ripetuto con frequenza maggiore quanto maggiore è il numero di partner della donna.
25 ANNI: si possono iniziare gli esami finalizzati a una futura gravidanza.
- Vaccinazione antirosolia: va eseguita solo se non è già stata fatta in età pediatrica e se è stata riscontrata una negatività anticorpale nel test preliminare.
- Screening per talassemia minor: da fare solo se non già eseguito.
40 ANNI: a questa età si dovrebbe iniziare a prevenire le malattie cardiovascolari, identificando i fattori di rischio.
Essi hanno però un peso diverso a seconda che siano isolati o associati tra loro. Inoltre una donna in età fertile non fumatrice è più protetta, grazie agli ormoni estrogeni, del maschio della stessa età.
LDLHDLcolesterolo totaletrigliceridiglicemia
-Ogni sei mesi: misurazione PA (pressione arteriosa)
-Ogni due anni: morfologico, sideremia, creatinemia, esame urine, GOT, GPT, CPK, uricemia
-Ogni tre anni: assetto lipidico (colesterolo < 130; colesterolo > 45; : valori normali fino a 180 e < 100) e
-Ogni quattro anni: elettrocardiogramma, anche da sforzo in caso di attività sportiva
La mammografia: si può iniziare dai 40 ai 50 anni, l’intervallo è annuale superati i 50 anni.
Non c'è comunque unanimità sull'utilità di organizzare screening di massa nelle donne di età inferiore ai 50, perché in questi casi la mammografia presenta alcuni svantaggi: il tessuto della mammella è più denso, tonico, quindi l'immagine radiografica è meno precisa (aumento dei falsi negativi e dei falsi positivi).
Queste però sono sempre indicazioni di massima: possono ben esserci quarantenni il cui seno è piccolo o comunque con caratteristiche tali da non inficiare il risultato dell'esame.
E poi è bene tenere presente che quando si parla di screening di massa si allude all'opportunità per il servizio sanitario di investire in questo senso, mentre per la singola donna il discorso è diverso: visti anche i costi non proibitivi, in caso di dubbi o anche soltanto di timori rivolgersi al ginecologo per eventualmente sottoporsi all'esame è sempre un'ottima cosa.
50 ANNI: ci si avvicina alla menopausa: bisogna individuare singolarmente i "pro" (diminuzione del rischio di osteoporosi) e i "contro" (aumento del rischio tromboembolico e di carcinoma mammario) della terapia ormonale sostitutiva.
- Ogni anno: mammografia
- Ogni 4 mesi: misurazione PA
- Ogni anno: assetto lipidico, glicemia e MOC (la necessità di questo esame è legata a fattori di rischio individuali quali la familiarità con la patologia, il fumo, la vita sedentaria, l’obesità, certi farmaci e determinate patologie)
- Ogni due anni: elettrocardiogramma (anche da sforzo in caso di attività sportiva), morfologico, creatinemia, esame urine, GOT, GPT, CPK, uricemia.
- Ecocardiogramma, ecografia addome e ecografia carotidea: da farsi solo in presenza di fattori di rischio.
60-70 ANNI
- ecodoppler
- ogni anno: mammografia
- ogni due mesi: misurazione PA
- ogni anno: elettrocardiogramma (anche da sforzo in caso di attività sportiva) e MOC
- ogni due anni: assetto lipidico, morfologico, creatinemia, esame urine, GOT, GPT, CPK, uricemia
- ogni tre anni: ecocardiogramma, ecografia addome ed carotideo.
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Secondo i risultati pubblicati dai ricercatori di tutto il mondo, a partire dai 40 anni aumentano le possibilità dell'insorgenza di tumori della mammella.;
Questa realtà, però, non deve spaventare poiché il cancro al seno è uno dei più curabili e si può guarire senza subire interventi chirurgici mutilanti.
Affinché questo avvenga è necessario che il tumore sia diagnosticato nella fase iniziale del proprio sviluppo sottoponendosi, a partire dai 40 anni e anche in assenza di sintomi, a controlli periodici e non saltuari.
La periodicità tra un controllo e l'altro potrà essere diversa in rapporto ai diversi fattori di rischio e verrà stabilita dal medico che esegue gli accertamenti, ma non deve superare i due anni.
Secondo l'Istituto Europeo Oncologico di Milano, le donne che non hanno mai avuto tumore mammario dovrebbero sottoporsi a controlli annuali, mentre quelle operate per carcinoma della mammella devono sottoporsi a controlli più stretti, di solito semestrali (nei primi 5 anni dopo l’intervento).
La diagnosi precoce, chiamata anche prevenzione secondaria o screening, include esami e test con lo scopo di individuare al più presto un eventuale carcinoma mammario.
L’identificazione di una lesione maligna a uno stadio precoce, quando il tumore è ancora localizzato solo nella mammella, permette interventi locali efficaci e con le minori complicazioni, assicurando una guarigione completa nella maggioranza dei casi.
Innanzitutto, è consigliabile eseguire annualmente, a partire dai 25/30 anni d’età, una visita senologica, presso un ginecologo o uno specialista (senologo).
Ai fini della diagnosi precoce di tumore devono essere poi eseguite come completamento (dallo stesso radiologo, che dovrà poi interpretare entrambi gli esami) anche una mammografia e una ecografia.
La mammografia, ossia la radiografia della mammella, resta il metodo di screening più efficace, deve essere eseguita a intervalli prestabiliti nelle donne asintomatiche, oltre che naturalmente quando l'esame obiettivo dimostra una massa sospetta.
Si tratta di un'indagine radiologica della mammella, che risulta particolarmente utile per individuare modificazioni iniziali della ghiandola mammaria quando può essere difficile palpare un nodulo.
L'esame ecografico, che può essere affiancato alla mammografia a giudizio del medico, permette invece di misurare con precisione le dimensioni del tumore e di valutare la densità di un eventuale nodulo, differenziando le lesioni solide da quelle che contengono liquido (cisti).
È un esame rapido, innocuo e indolore, che si avvale di un piccolo strumento a forma di microfono (sonda ecografica) in grado di emettere ultrasuoni.
Durante l’esame, la sonda scorre sulle mammelle precedentemente spalmate con un sottile strato di apposito gel, e gli ultrasuoni emessi vengono riflessi dal tessuto mammario ed elaborati dall’ecografo, consentendo quindi la visualizzazione della zona esaminata su un computer.
Di solito si esegue nelle donne di età inferiore a 35 anni, le cui mammelle sono troppo dense per essere ben visualizzate alla mammografia.
In sostanza il carcinoma mammario deve essere sospettato tutte le volte che ci si trovi in presenza di una massa e/o di reperti mammografici sospetti, mentre la conferma della diagnosi si ha soltanto con l'esame istologico (o citologico) del tessuto (o dell’aspirato) ottenuti con l’agoaspirazione, con l’agobiopsia e con le altre tecniche bioptiche.
Riassumendo, per facilitare la diagnosi precoce:
La conoscenza delle proprie mammelle (che si presentano spesso nodose e con aree di diversa consistenza) è molto importante nella diagnosi precoce di cancro del seno<.
Le mammelle infatti sono soggette a diverse modificazioni del tessuto e sono possibili, a qualsiasi età, manifestazioni di varia natura, come noduli o cisti, che possono interessare il capezzolo, la cute ecc.
È importante sottoporsi periodicamente a visita di controllo e fare attenzione a ogni insolita modificazione delle proprie mammelle.
Il metodo più efficace di controllo del proprio seno è l’autopalpazione, che permette alla donna di conoscere l’anatomia delle sue mammelle e quindi di individuare tempestivamente gli eventuali noduli duri o di consistenza diversa dal tessuto circostante.
È bene ricordare sempre che il compito di una donna non è quello di capire ciò che palpa, ma solo quello di controllare nel tempo che non vi siano cambiamenti.
L'autoesame non è sufficiente ai fini della diagnosi precoce ma la sua pratica permette alle donne di evitare paure inutili quando si riscontrano tumefazioni che rientrano nella norma.
Difatti quasi tutte le diversità che una donna può notare sono benigne e, pertanto, deve riferirle al proprio medico senza ansia, lasciando a lui il compito di risolvere il problema.
Non si deve avere paura di palparsi le mammelle: qualsiasi modificazione si verifichi è meglio scoprirla e curarla poiché questa è la via migliore per la guarigione.
L'autoesame va eseguito con regolarità, ogni mese, al termine del flusso mestruale, quando il seno non è congestionato (in quanto l’aspetto e la consistenza delle mammelle variano secondo il ciclo mestruale).
Se il flusso è cessato è bene stabilire un giorno fisso al mese.
Può essere eseguito anche ogni tre mesi ma intervalli maggiori sono sconsigliabili.
L’autoesame consta di tre momenti.
La mammografia è un esame radiologico che, utilizzando raggi X a basso dosaggio, consente uno studio molto scrupoloso delle mammelle.
I più importanti segnali evidenziati grazie alla mammografia sono:
In Italia il cancro al seno è il più frequente tumore femminile e la principale causa di morte tra le donne al di sopra dei 40 anni. Un big killer che, nel nostro Paese, fa registrare ogni anno circa 11.000 decessi e 33.000 nuovi casi.
«Oggi, in Italia, si ammalano di cancro alla mammella quattro donne ogni ora», afferma il professor Schittulli, oncologo e presidente della LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori), «ma negli ultimi 10 anni abbiamo assistito a un continuo regresso della mortalità, grazie a terapie sempre più innovative, ma soprattutto a programmi di prevenzione e a una maggiore sensibilizzazione della donna sull’importanza della diagnosi precoce».
Ecco perché quest’anno la Campagna Nastro Rosa, portata avanti dal 1989, si rivolge in particolare alle donne di giovane età: la prevenzione, infatti, comincia a 16 anni, quando di acquisisce la buona abitudine dell’autopalpazione.
Poi, a partire dai 25 anni, è importante sottoporsi a esami medico-diagnostici specifici, quali la visita senologica, l’ecografia mammaria e la mammografia.
«La diagnosi precoce deve rappresentare per ogni donna un impegno operativo, un gesto abituale», continua il professor Schitulli, «e solo se portata avanti con regolarità fin dall’inizio risulterà vincente».
Nel concreto, la campagna si articolerà in diverse iniziative atte a colorare di rosa tutto il mese di ottobre:
Modificazioni del tessuto e disturbi inerenti le mammelle sono molto diffusi e possono avere diverse manifestazioni che, in altissima percentuale, si risolvono senza che sia riscontrata la presenza di un tumore.
Ne ricordiamo alcuni:
Il quadro clinico del carcinoma mammario è piuttosto povero, specie per quanto riguarda la sintomatologia iniziale.
Infatti la maggior parte dei tumori al seno non provoca dolore né dà alcun segno di sé: la sua comparsa è visibile solo con la mammografia.
Nella maggioranza dei casi (70 / 80 %) si presenta alla donna e al medico come un nodulo non dolente, duro alla palpazione, con margini irregolari e difficilmente delimitabili, fisso ai tessuti sottostanti.
Comunque la presenza di uno o più noduli non è automaticamente sinonimo di cancro: infatti la maggior parte dei noduli mammari sono solo tumori benigni, soprattutto nelle donne più giovani.
Invece ogni nodulo che compare dopo i 30 anni deve essere considerato dubbio e quindi sottoposto a immediato controllo medico.
Sempre più spesso è il radiologo, durante una mammografia o una ecografia eseguita per diagnosi precoce, a scoprire un tumore non palpabile. Sono i veri casi iniziali, che guariscono quasi al 100%.
Oltre al nodulo mammario, altri segni (più rari) devono essere considerati:
Se un tempo il prezzo da pagare per una guarigione completa dal carcinoma mammario era la mastectomia radicale, quali che fossero le dimensioni del nodulo, ora non più: si asporta solo il quadrante, ossia lo spicchio di mammella in cui si trova il tumore.
Ma la rivoluzione culturale in quanto a terapie è proseguita.
L'attenzione degli oncologi si è concentrata su un altro intervento chirurgico molto delicato, la linfoadenectomia o svuotamento del cavo ascellare, che consiste nell'asportazione dei linfonodi situati nell'ascella, che è generalmente la prima sede di propagazione della malattia al di fuori della mammella.
Questa parte dell'intervento porta spesso a complicanze quali l'edema del braccio o una ridotta motilità del braccio.
Per questo si è pensato a un’alternativa che desse la possibilità di evitare la chirurgia demolitiva, come spiega Umberto Veronesi, direttore dell’ IEO di Milano:
«Per evitare lo svuotamento ascellare è sufficiente analizzare il cosiddetto linfonodo sentinella, che è il primo linfonodo a ricevere la linfa dall’area mammaria che contiene il tumore.
Sappiamo che le cellule tumorali camminano lungo la via linfatica e raggiungono progressivamente i linfonodi ascellari: per questa ragione l’analisi di questo primo linfonodo sulla via seguita dalle cellule tumorali è indicativa dello stadio del tumore.
Con un tracciante radioattivo si esamina durante l'intervento il linfonodo sentinella: se contiene cellule tumorali, vengono asportati anche tutti gli altri linfonodi ascellari, se invece è sano, è inutile asportare gli altri linfonodi».
L'oncologo, propugnatore di questa tecnica che evita la demolitiva dissezione ascellare, pubblica ora sul New England Journal of Medicine uno studio a conferma della sua validità.
Fra il 1998 e il 1999 sono state arruolate 516 donne con un tumore al seno inferiore ai due centimetri di diametro.
«A metà di loro abbiamo fatto la dissezione ascellare, mentre all'altra metà sono stati asportati i linfonodi solo se quello sentinella era positivo (un terzo dei casi).
Si è visto così che il margine di errore è minimo: la possibilità di predire in modo corretto lo stato dei linfonodi è del 97 %» assicura Veronesi.
L'équipe dell'IEO ha anche verificato che a cinque anni di distanza le pazienti del gruppo sentinella, oltre ad aver avuto un intervento meno invasivo, che evita i problemi di mobilità e gonfiore al braccio, hanno sviluppato meno metastasi delle altre.
E le percentuali globali di guarigione sono state leggermente migliori.
In Italia sono ancora pochi i centri in cui si pratica la tecnica del linfonodo sentinella. Ed è un peccato visto che i tumori al seno individuati sono sempre più piccoli.
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Attualmente per la cura del carcinoma mammario sono disponibili svariati protocolli medici che permettono di personalizzare la terapia a seconda del problema.
Chirurgia, chemioterapia, ormonoterapia, immunoterapia con anticorpi monoclonali, radioterapia e farmaci cooperano per migliorare i risultati di sopravvivenza: la terapia radiante serve a evitare recidive, la chemioterapia per controllare metastasi o per far regredire il tumore prima dell’intervento chirurgico, il blocco degli estrogeni per evitare l’alimentazione del tumore da parte degli ormoni sessuali.
È chiaro quindi che per affrontare un problema così sfaccettato e variabile si rende necessario un lavoro d’équipe che include più figure mediche, per poter dare il massimo contributo tecnico, scientifico e umano.
Queste figure sono quasi sempre:
l'oncologo medico, che dà l'impostazione del piano di cura e ha un ruolo di coordinamento
il chirurgo, che riveste un ruolo essenziale sia curativo che estetico
il radioterapista, che entra in gioco sia nella prevenzione delle ricadute, sia nella terapia del dolore.
Intorno a questo gruppo di medici ruotano tutti coloro che in maniera secondaria, ma non meno importante, collaborano alle cure (radiologi, anatomo-patologi, medici nucleari, psicologi, ginecologi, ecc).
La chirurgia del carcinoma mammario si divide in demolitiva e conservativa. La prima viene eseguita se il tumore è particolarmente diffuso, aggressivo o multifocale e consiste nell'asportazione totale della mammella (mastectomia).
La chirurgia conservativa è invece indicata se il tumore è di piccole dimensioni e consiste nella sola asportazione del quarto di mammella in cui ha sede la lesione (quadrantectomia).
A seconda dei casi sarà così possibile scegliere tra quadrantectomia o mastectomia.
In alcuni casi trova anche indicazione la tumorectomia, ovvero si preleva solamente il tumore e i tessuti che lo circondano.
Oggi le pazienti con tumori di piccole dimensioni possono essere trattate con la mastectomia segmentale, mentre quelle che presentano una neoplasia in stato avanzato con la mastectomia radicale modificata, completata dalla chirurgia ricostruttiva.
Dunque, a ogni caso il suo intervento.
La chirurgia rimane tuttora il metodo più risolutivo, e le cifre lo confermano: a cinque anni dall'intervento, il 65% delle pazienti viene considerato guarito, ma se la neoplasia operata è inferiore ai 2 cm di diametro e i linfonodi sono liberi, la percentuale di guarigione sfiora il 90%.
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Cos'è la chemioterapia?
La chemioterapia oncologica consiste nella somministrazione, generalmente per via endovenosa, di farmaci citotossici che, danneggiando il DNA (cioè il codice genetico contenuto nei nuclei cellulari), prevengono la divisione delle cellule cancerose e le conducono alla morte.
Le varie tipologie di farmaci agiscono a differenti stadi della divisione cellulare, pertanto il metodo più efficace resta la chemioterapia combinata, che consiste nella somministrazione di vari tipi di farmaci allo stesso tempo.
In genere il trattamento è suddiviso in dosi (chiamate cicli) più o meno trisettimanali, da ripetersi per parecchi mesi.
Quando viene usata la chemioterapia? Risponde la dottoressa Gatti, dell’IEO di Milano:
«Siccome la strategia contro il carcinoma mammario è personalizzata e tiene conto di tutte le caratteristiche della paziente e del tumore, non si può generalizzare sui casi di utilizzo della chemioterapia.
Può essere impiegata in diversi contesti legati al carcinoma della mammella: nella prevenzione come coadiuvante alla chirurgia (cioè dopo un intervento chirurgico), oppure nella riduzione di una massa tumorale prima della chirurgia, oppure ancora nelle metastasi a distanza».
Quali sono gli effetti collaterali?
Dal momento che i farmaci citotossici uccidono le cellule sane così come quelle cancerose, possono dare gravi effetti indesiderati, che variano da farmaco a farmaco.
Gli effetti a breve termine più comuni comprendono:
Ricostruzione il seno operato
La possibilità di ricostruire il seno dopo la rimozione di un tumore «deve essere offerta a tutte le donne che lo desiderano indipendentemente dall’età o dallo stato di malattia».
Così si sono espressi in un recente incontro gli esperti di oncologia chirurgica ricostruttiva, una disciplina che negli ultimi vent’anni ha avuto un notevole sviluppo.
Infatti una prognosi non benigna della malattia non deve far accantonare la possibilità della ricostruzione, anzi, il compito del chirurgo è quello di proporre questo intervento qualunque sia la diagnosi finale.
Oggi la chirurgia è in grado di ripristinare completamente l'aspetto del seno operato, restituendo le dimensioni e la forma originali, con benefici notevoli sulla psicologia della donna.
Inoltre due importanti conquiste in campo medico-chirurgico hanno riportato in auge la ricostruzione negli ultimi anni: la creazione di protesi in silicone e lo sviluppo di nuove procedure per trasferire la cute e/o i muscoli da altre aree alla regione mammaria.
Quando è meglio operare?
La prima questione importante riguarda il momento più opportuno per effettuare la ricostruzione.
Di solito si raccomanda la ricostruzione in contemporanea, cioè contestualmente all'intervento oncologico, per evitare alla paziente un'ulteriore seduta chirurgica, ma soprattutto per scongiurare la fase depressiva conseguente alla mutilazione, come afferma anche la dottoressa Gatti, dell’IEO di Milano:
«Ogni volta che è possibile la ricostruzione deve essere immediata. Questo non elimina di certo lo shock dell’intervento, ma almeno allevia i postumi psicologici della chirurgia, evitando alla donna di vedere la menomazione».
La paziente ideale per l'intervento immediato deve però avere alcuni requisiti essenziali: deve essere giovane, avere la mammella dell'altro lato piccola e non ptosica (cioè non cadente) e presentare un tumore di piccole dimensioni.
Inoltre questa procedura non sempre è possibile e non tutti i centri sono adeguatamente attrezzati.
Al contrario, alcune pazienti possono trarre beneficio da una ricostruzione differita, considerando anche che i risultati che si possono ottenere sono in genere migliori.
È infatti più facile ottenere la simmetria e, di solito, le mammelle hanno un aspetto più naturale rispetto a quelle ricostruite con un intervento immediato.
La ricostruzione posticipata può essere effettuata in qualsiasi momento, da pochi giorni ad anni dopo la mastectomia, ma in genere l’intervallo ideale si aggira intorno ai quattro mesi.
La ricostruzione dell'intera mammella, includendo l'areola e il capezzolo, è una procedura che richiede uno o più interventi (dai 6 mesi ai 12 mesi di tempo) e un certo periodo di assestamento per ottenere il risultato definitivo.
Tipologie e rischi dell’intervento ricostruttivo
La decisione successiva riguarda il tipo di procedura da effettuare.
La ricostruzione può avvenire:
È fatta. Abbiamo vinto la nostra battaglia contro il tumore.
Ma proprio adesso che siamo uscite dal tunnel della sofferenza, non dobbiamo dimenticarci del dolore passato, soprattutto perché è il cancro a non dimenticarsi di noi.
E allora, ancora una volta, è necessario stare all’erta e sottoporre i nostri seni a ripetuti e periodici controlli.
La dottoressa Giovanna Gatti, dell’IEO di Milano, consiglia «visite senologiche semestrali ed esami mammografici ed ecografici annuali (salvo diversa indicazione in casi particolari) durante i cinque anni successivi a un carcinoma mammario, dopodiché, trascorso questo quinquennio di follow-up, i controlli ritornano annuali».
Questo screening a tappeto è fondamentale perché purtroppo la guarigione da un carcinoma mammario non esclude la possibilità di una recidiva, cioè della ripresentazione del tumore nello stesso seno, né della formazione di metastasi a distanza.
Un recente studio ha preso in esame l’andamento di alcuni casi difficili, cioè quelli che hanno avuto, a distanza di tempo, recidive o metastasi.
I ricercatori hanno scoperto che le possibilità di superare la malattia andavano aumentando con il tempo, anche di anno in anno.
Lo studio rivela anche che maggiore è l’intervallo tra il primo tumore e la ricaduta, migliore è la prognosi: questo convalida l’idea dell’importanza fondamentale rivestita dalla diagnosi precoce del primo tumore: se all’epoca era stato identificato quando ancora era di dimensioni contenute, anche la ricaduta sarà più facilmente curabile.
Per quanto riguarda la cura, continua la dottoressa, «in caso di recidiva la terapia è chirurgica. Altre terapie vengono decise sulla base del quadro clinico e istologico.
Se il problema sono le metastasi a distanza, la terapia dipende dalla situazione».
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La radioterapia è l’uso di radiazioni ionizzanti che hanno lo scopo di disinfettare il letto operatorio da eventuali cellule tumorali rimaste.
Consiste in sedute giornaliere di raggi X da ripetersi cinque giorni alla settimana per oltre un mese.
La radioterapia è essenziale per evitare una recidiva locale, cioè la riformazione del tumore nella mammella già operata, soprattutto in seguito a un intervento chirurgico conservativo, o nei casi in cui il tumore infiltri la cute anche se la donna ha effettuato una mastectomia.
È indicata quindi nelle pazienti che hanno eseguito un intervento conservativo e in quelle che, dopo aver subito mastectomia, all'esame istologico definitivo presentano infiltrazione tumorale della cute o del capezzolo.
Con la radioterapia non si perdono i capelli e non si vomita, l'unico effetto collaterale può essere una scottatura simile a quella dovuta a un’esposizione solare, che generalmente si rende più evidente con le ultime applicazioni di raggi.
Esistono attualmente anche studi sperimentali che propongono la radioterapia durante l'intervento (IORT, ovvero radioterapia intraoperatoria), ma le indicazioni e i risultati sono ancora effetto di ricerca, come ci spiega la dottoressa Gatti dell’IEO di Milano:
«La ELIOT (radioterapia intraoperatroria con elettroni) eroga una dose di radiazioni direttamente a organi interni durante l'intervento chirurgico.
È in fase avanzata di studio per il tumore della mammella e i risultati preliminari sono molto incoraggianti».
In questi ultimi anni la radioterapia primaria ha sostituito l’intervento chirurgico in pazienti con tumori in fase clinica avanzata, mentre la radioterapia post-operatoria è stata abbandonata come intervento di routine e il suo impiego più comune è rimasto quello che si attua dopo la chirurgia di tipo conservativo.
La radioterapia palliativa è, come dice il nome, praticata in tutti i tumori radiosensibili in fase evoluta.
La terapia medica comprende l’endocrinoterapia (antiestrogeni, progestinici e androgeni) e la chemioterapia.
In alternativa alla radioterapia sistemica, per i tumori di tre centimetri al massimo si procede con la brachiterapia, che è una tecnica di radioterapia di contatto.
La dottoressa Gatti ci spiega in cosa consiste:
«Viene erogata una dose di piccolissime dimensioni (la punta di una matita) di radiazioni anche ripetuta attraverso dispositivi che sono portati a diretto contatto con le zone da irradiare, o sono inseriti nella cavità corporee da irradiare.
Questo permette di accelerare i tempi della terapia che, anziché sei settimane e mezzo, dura quattro o cinque giorni.
Inoltre, essendo molto circoscritta e mirata, l’irradiazione riduce praticamente a zero l’esposizione dei tessuti sani e implica pochi effetti collaterali, dal momento che le radiazioni sono concentrate sul tumore».
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Cos’è la psico-oncologia?
Psiche è un termine greco che significa mente o anima, mentre oncologia deriva da onkos, cioè massa, e indica lo studio dei tumori.
L'oncologia psicosociale si occupa quindi del fattore emotivo nei malati di cancro, ma non solo: allarga la sua area di applicazione anche all’entourage dei pazienti, affermando che i tumori non riguardano solo i singoli individui, ma anche le loro famiglie, gli amici e i colleghi.
Questo disciplina analizza le conseguenze psicologiche del cancro sui pazienti, le loro famiglie e coloro che li assistono, inclusi gli operatori sanitari professionali, e si chiede fino a che punto sia possibile ridurre gli effetti psicologici indesiderati e incoraggiare invece quelli positivi, tramite la scelta di interventi medici, chirurgici e psicologici, la qualità dell’interazione personale-paziente e l’organizzazione dei servizi.
Le terapie psico-oncologiche si diversificano molto in base ai singoli casi da trattare, ma in linea generale si basano sul counselling, termine inglese con cui si intende una serie di attività che hanno lo scopo di alleviare, per quanto è possibile, la sofferenza di malati e familiari: si va dalla chiacchierata amichevole con la paziente a incontri formali finalizzati a fornire informazioni sulla patologia, dalla partecipazione a gruppi di auto-aiuto fino alla terapia professionale vera e propria.
Lo shock della diagnosi
La diagnosi di un tumore al seno non è paragonabile alla maggioranza delle diagnosi di cancro perché in genere queste ultime sono già sufficientemente ovvie ai pazienti, che hanno notato per primi i sintomi precoci tipici di questa patologia e si sono rivolti al medico.
Invece nel caso di un carcinoma mammario la diagnosi può arrivare come uno shock improvviso, in quanto questo tipo di cancro non dà alcun segnale di sé e si rivela solo durante un regolare controllo medico.
Una diagnosi di cancro alla mammella scatena nella donna diverse reazioni emotive, che cambiano col passare del tempo.
Inizialmente prevalgono shock, stordimento e incredulità: la cattiva notizia appare come un peso troppo grande da reggere e assimilare. Questa fase di diniego dura pochi giorni e non sempre avviene.
Quando la verità si fa chiara subentrano angoscia, rabbia, contrattazione e protesta, che possono durare anche parecchie settimane.
Col passare del tempo interviene l'aggiustamento emotivo e infine sopraggiunge l’accettazione, per la quale solitamente occorrono svariati mesi.
Tutte le pazienti incontrano dei problemi psicologici prima o poi durante la malattia, ma molte trovano il coraggio di affrontarli e nel loro percorso ottengono addirittura soddisfazioni inaspettate.
Anzi, la maggior parte delle pazienti sperimenta un insieme di aspetti positivi e negativi: tante donne che hanno risolto la propria situazione hanno visto la propria vita arricchita e trasformata dalla malattia.
Analogamente, però, in troppi casi la sofferenza sia spirituale che fisica non riesce ad alleviarsi e diventa insopportabile.
Ovviamente la reazione emotiva di ogni individuo dipende dalla sua personalità, dalla presentazione fatta dal medico della sua situazione clinica e dal modo in cui il personale sanitario ha gestito il caso.
Comunque, ogni paziente informata della diagnosi di cancro al seno è emotivamente vulnerabile. Gestire la cosa con sensibilità può aiutare a ridurre al minimo l’angoscia.
Per fare questo, è necessario prima capire come la paziente risponde emotivamente alla sua nuova condizione di malattia.
Lotta o rassegnazione?
Una volta accusato il colpo, la paziente può manifestare diverse risposte emotive alla malattia.
Non esistono infatti due malati di cancro che presentino esattamente la stessa reazione, nemmeno in condizioni fisiche similari.
La risposta dipende dalla percezione individuale del pericolo rappresentato dalla malattia, che viene determinata dalla personalità della donna.
I modi di reagire sono essenzialmente due:
Primo: atteggiamento combattivo. La paziente accetta la sfida, vuole conoscere tutto sulla sua patologia, chiede di intervenire nella scelta della terapia, magari partecipa a un gruppo di auto-aiuto, cerca terapie complementari e apporta modifiche al proprio stile di vita (dieta, esercizio fisico ecc.).
La distrazione, la capacità cioè di dedicarsi ad attività piacevoli per distrarre la mente dalla malattia, è un tipo di reazione attiva che può risultare molto efficace (ma che non va confusa con il rifiuto, che è meno utile).
I pazienti positivi non sono assolutamente immuni dalla sofferenza, sebbene non ne vengano sopraffatti, semplicemente sono in grado di essere flessibili e modificare il proprio stile di vita in base alle nuove circostanze e agli handicap fisici.
Riescono a mantenere la stima di se stessi e i rapporti con gli altri.
Secondo: reazione passiva, di impotenza e disperazione. La paziente si sente sconfitta, non si sforza di fronteggiare la malattia, si sottopone a qualunque terapia le venga consigliata, senza però prendere alcuna iniziativa, per esempio non riferisce la comparsa di nuovi sintomi a meno che non le venga specificatamente richiesto.
La risposta psicologica alla malattia determina l’aggiustamento emotivo: coloro che reagiscono passivamente sono più a rischio di ansia o depressione.
Inoltre, pare che il tipo di reazione abbia influenza sulla prognosi medica, come dimostra un recente studio condotto a Londra: le donne affette da tumore al seno coinvolte nell’esperimento che hanno dimostrato un atteggiamento combattivo sono sopravvissute più a lungo, in condizioni di buona salute, rispetto alle altre.
Nonostante si sia tentati di considerare le reazioni attive come migliori di quelle passive, ogni donna deve reagire al cancro al seno secondo la sua personalità.
Spesso, in buona fede, i consulenti cercano di spingere le pazienti a pensare positivo e a essere combattivi per contrastare la malattia; tuttavia, il consiglio non è sempre adatto per coloro ai quali questo atteggiamento non viene spontaneo.
Ma, se è sbagliato e fuorviante biasimare una paziente per non aver combattuto, è altrettanto illusorio credere che il controllo personale influisca sull’insorgenza o sull’esito del tumore.
Questi convincimenti scatenano inutili sensi di colpa in quanto la sensazione di poter intervenire attivamente sul proprio destino fanno dimenticare l’esistenza di fattori biologici che sono oggettivi portatori di cancro.
L’unico modo per affrontare la malattia con dignità è accettare l’idea che lo stato di salute o malattia dipende da un insieme di fattori di cui molti non dipendono dalle scelte personali.
In questo modo si eviterà l’implacabile quanto inutile sforzo di volersi assumere la completa responsabilità della malattia.
Il cancro in famiglia
Il partner, i parenti e gli amici sono emotivamente colpiti dalla malattia quanto la stessa paziente, per questo motivo le strutture oncologiche si dedicano anche al supporto psicologico della famiglia della malata (tramite le infermiere specializzate o gli assistenti sociali).
In genere le problematiche che si innescano nella famiglia di una donna malata di cancro al seno sono risolvibili facendo appello all’unità e al vicendevole aiuto, perché non dimentichiamo che tutti membri della famiglia necessitano di un supporto.
Ecco cosa può capitare:
Scambio dei ruoli: a seguito del trattamento o dell’intervento, la madre di famiglia è temporaneamente limitata a livello fisico, e non può adempiere agli abituali compiti casalinghi.
Il partner si trova così ad affrontare un enorme stress, dovendosi incaricare di responsabilità pratiche delle quali è inesperto: cucinare, pulire, accudire i figli.
In questi casi la flessibilità è importante: alcuni mariti scoprono di possedere doti sconosciute, altri imparano da zero le mansioni casalinghe.
Comunque, la maggior parte dei curanti è estremamente desideroso di accudire la paziente e viene solitamente ricompensato da un accresciuto senso di utilità e da una maggiore intimità con la persona amata.
Spesso, la donna soffre per la perdita del proprio ruolo ed è convinta che nessuno potrà incaricarsi delle sue cose in maniera adeguata.
Questo tipo di reazione può essere evitata se la donna assume un altro ruolo, dedicandosi ad attività che non implichino sforzi fisici (fare i conti, aiutare i figli nei compiti ecc.).
Disturbi nell’umore nei curanti: poiché nelle coppie si tende all’armonia, se uno dei due partner è emotivamente sofferente, è probabile che lo sia anche l’altro.
Inoltre, i curanti si sentono obbligati a mostrarsi allegri e coraggiosi, e così il crollo emotivo è sempre dietro l’angolo.
Allora può essere utile organizzare un colloquio coi soli curanti, da far seguire poi da altri incontri in cui sia presente anche la paziente, per incoraggiare la condivisione della sofferenza reciproca.
Ostacoli alla comunicazione: spesso, anche nelle famiglie più unite, si fatica a parlare della malattia, a pronunciare la parola cancro.
Ma per il benessere psicologico della donna e della sua famiglia è fondamentale abbattere questo tabù e trovare il coraggio di affrontare l’argomento con il partner: condividere pensieri e stati d'animo aiuta a ritrovare la confidenza di coppia.
Problemi sessuali: molte pazienti sono reticenti su questo punto, quindi occorre che il medico o l’infermiera facciano domande dirette, per sollecitare la donna a parlare di dubbi, incertezze, imbarazzi, e darle incoraggiamenti e informazioni concrete.
Può essere una buona idea parlare con entrambi i membri della coppia insieme, in quanto questo potrebbe consentire loro di affrontare l’argomento per la prima volta.
Comunicazione con i figli: parlare ai figli del tumore è un compito penoso. La cosa migliore è parlarne per gradi, piuttosto che in un’unica occasione, lasciando aperto il dialogo nel tempo, mano a mano che la malattia evolve.
È improbabile riuscire a tenere segreta la malattia di un genitore ai figli. Anche quando l’argomento non è affrontato in casa, la loro sofferenza si palesa tramite cambiamenti comportamentali: i più piccoli diventano appiccicosi, si rifiutano di andare a scuola, sviluppano un atteggiamento aggressivo.
Per questo è importante che il ragazzo mantenga una routine domestica, per avere un senso di sicurezza.
Inoltre, i figli devono avere la possibilità di parlare della malattia e di fare domande alle quali occorre rispondere sinceramente, altrimenti l’ignoranza di ciò che sta accadendo può portarlo a sentirsi abbandonato senza sapere perché, o peggio ancora a sentirsi in colpa per qualcosa che pensa di aver fatto.
Per questi motivi è spesso più utile che sia un adulto esterno alla famiglia a parlare con i figli, come un insegnante di scuola.
Vedere opuscoli e video può aiutare i ragazzi a capire cos’ha la propria mamma.
I ragazzi vanno incoraggiati a visitare la madre all’ospedale, per accertarsi delle sue reali condizioni di salute.
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Per le donne che hanno subito mastectomia sembra impossibile tornare alla normalità, riprendere la vita di prima.
Le perplessità e le paure riguardano soprattutto la vita di coppia e la concezione della propria femminilità: insieme a quella parte del corpo è stata tolta anche la capacità di sentirsi donna, dentro e fuori.
Sembra impossibile pensare di poter vivere serenamente, come prima, la propria sessualità.
In realtà, l’ostacolo dell’inibizione sessuale non è insuperabile, come spiega il dottor Murru, dell’Unità Operativa di Psicologia dell'Istituto Tumori di Milano:
«La sessualità è un’esperienza totale, che non si può confinare alla genitalità e alla procreazione, ma riguarda sia la mente e che tutte le parti del corpo.
Il percorso terapeutico di recupero sessuale è lungo e complesso, e inizia con l’accettazione della perdita, della ferita, del fatto che il corpo è cambiato.
La coppia deve poi impegnarsi a riappropriarsi dell’Eros nel suo senso più ampio di amore per la vita».
«È fondamentale che la donna non perda di vista la globalità del concetto di femminilità», dice la dottoressa Gatti, dell’IEO di Milano.
«È vero, il seno è il simbolo di riproduzione e di femminilità, ma ci sono altre caratteristiche fisiche e psicologiche che caratterizzano l’essere donna.
I cambiamenti fisici sono traumatici e stressanti, ma possono essere affrontati con un progressivo riadattamento alla nuova situazione e con la consapevolezza interna di essere donna.
Inoltre di solito la mastectomia è seguita immediatamente da ricostruzione con protesi o con altre tecniche di chirurgia plastica: questo evita alla donna il trauma della mutilazione visibile».
E per quanto riguarda la possibilità di essere ancora mamma?
Dice ancora la dottoressa Gatti: «La gravidanza dopo un carcinoma mammario è un bellissimo esempio di ritorno alla vita, ma richiede una pianificazione alla luce della trascorsa esperienza di tumore e delle terapie effettuate.
È evidente che un’attesa adeguata deve separare il carcinoma e le relative terapie dalla gravidanza, sia per raggiungere una ragionevole tranquillità circa l’evoluzione della malattia, sia per smaltire i residui dei farmaci potenzialmente tossici per il feto».
«Le persone che decidono di fare figli dopo la malattia oncologica sono probabilmente anche quelli che hanno maggiori risorse per superare questo momento», spiega il dottor Murru.
«Tuttavia è importante che il futuro genitore capisca i problemi suscitati dalla malattia: per questo il rapporto di fiducia con i medici deve consentire di dialogare sui rischi derivanti dal carcinoma e dagli effetti tardivi da terapie farmacologiche».
A tale proposito, un recente articolo pubblicato su Cancer evidenzia che coloro che sono diventati genitori dopo le terapie sono coloro che hanno avuto maggiori informazioni dai propri terapeuti e maggiori possibilità di discutere delle paure relative alla propria malattia e agli effetti della procreazione su di sé e sul nascituro.
Dunque dopo aver vissuto il cancro è davvero possibile, con tanta buona volontà e l'aiuto prezioso dei propri cari e dei medici, non solo tornare alla vita, ma perfino dare la vita.
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Riscoprire e rinnovare la propria femminilità, dopo il trauma provocato dal tumore al seno, non si riduce solo alla sfera sessuale: vuol dire anche, e soprattutto, recuperare la propria autostima, sentirsi ancora bella e desiderabile, adottare un abbigliamento femminile ma al contempo confortevole.
Questo vale soprattutto per quelle donne che, per scelta o per necessità, si ritrovano dopo l’intervento a indossare protesi esterne.
La lingerie tradizionale non riesce sempre a soddisfare le esigenze di una donna che indossa protesi: è quindi consigliabile affidarsi a modelli studiati specificamente per questi casi.
I reggiseni devono unire il lato estetico con quello funzionale-riabilitativo:
SaluteDonna è un’associazione nata nel 1994 all'Istituto Nazionale Tumori per sostenere la prevenzione e la lotta ai tumori femminili.
L’ideatrice, l’architetto Anna Mancuso, ha creato l'associazione dopo aver vissuto, in prima persona, l'esperienza del cancro: è stata infatti operata di tumore al seno per due volte.
Salute Donna è in grado di offrire alle donne malate di cancro consulenze oncologiche, chirurgiche, ginecologiche, legali, ma soprattutto psicologiche.
Infatti il compito fondamentale dell’associazione è, come spiega la fondatrice, «il supporto psicologico, fornito soprattutto a quelle donne che, per fragilità caratteriale, non hanno elaborato la malattia oppure ne rigettano l’idea, faticano a riappropriarsi della loro vita, si rifiutano di reagire».
I volontari di Salute Donna diffondono una nuova cultura della malattia oncologica, che va dalla promozione del codice europeo contro il cancro alla campagna di prevenzione per una diagnosi precoce della malattia.
A questo scopo Salute Donna promuove corsi di educazione alla salute:
«Il nostro obiettivo è abbattere i pregiudizi sull’inguaribilità del tumore al seno: le donne vanno informate dei progressi della medicina, grazie ai quali oggi, di cancro alla mammella, non si muore più».
Di fronte a una diagnosi di tumore, infatti, una donna si trova catapultata in un mondo pieno di interrogativi: il mio male sarà curabile? Dovrò sottopormi alla chemioterapia? Potrò condurre una vita normale?
«Per questo molte donne si rivolgono alla nostra associazione: cercano dei testimoni al loro dolore, persone che hanno già vissuto la stessa esperienza e che possono dare loro indicazioni concrete di quello che le aspetta.
Il ruolo del partner è insostituibile, ma non basta: servono persone che possono capire più da vicino, primo perché sono donne, secondo perché ci sono già passate».
E cosa consiglia la signora Mancuso a una donna che si appresta a tornare alla normalità dopo aver vissuto la terribile esperienza del cancro? Cosa può fare invece la sua famiglia per aiutarla a riacquistare la serenità?
«Io consiglio sempre di non abbandonarsi al vittimismo, perché si rischia di essere risucchiati in una spirale di depressione dalla quale non si esce più. Meglio affrontare i postumi della malattia a testa alta, parlando con gli altri di ciò che si è vissuto, e non facendo finta che non sia successo niente.
Le donne che ritengono impossibile recuperare la serenità si sbagliano: la normalità torna davvero, con un unico handicap: gli esami, che costituiscono uno scoglio con cui la donna, purtroppo, deve convivere.
Lo spettro del cancro non abbandona mai una donna guarita, ma l’importante è non negare l’evidenza, ma imparare a gestirla e a condividerla.
Alla famiglia do invece tre suggerimenti: