Depressione
La malattia è anche conosciuta come:
depressione clinica, depressione endogena, depressione maggiore, depressione unipolare, disturbo depressivo, disturbo depressivo maggiore, disturbo unipolare
INDICE
Gli esperti lanciano l’allarme: 1 italiano su 4 è depresso. Più colpito il gentil sesso, ma anche gli adolescenti sono potenziali vittime del mal di vivere. Importante una diagnosi tempestiva che permetta di scegliere una terapia adeguata. Ma la strada è lunga: per i primi miglioramenti bisogna attendere due anni.
Categoria: Malattie psichiatriche
Sigla: MDD
Che cos’è – Depressione
Depressione: quando vivere fa male
La depressione è un grave disturbo dell’affettività caratterizzato da abbassamento del tono dell’umore, negatività emotiva, pessimismo e tristezza cronica. Di depressione si muore: è ormai appurato infatti che il disturbo depressivo è associato a una elevata mortalità, in quanto fino al 15% dei depressi gravi muore per suicidio.
Altri disturbi mentali sono frequentemente compresenti al disturbo depressivo, come disturbi correlati a sostanze, disturbo di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo borderline di personalità.
Fino al 20%-25% degli individui con certe condizioni mediche generali (per esempio, diabete, infarto del miocardio, carcinomi, ictus) svilupperanno il disturbo depressivo nel corso della loro condizione medica generale. D'altra parte, il trattamento della condizione medica generale è più complesso, e la prognosi è meno favorevole, se è presente la depressione.
La depressione può esordire a ogni età, con un'età media di inizio intorno ai 25 anni. Anche la modalità di presentazione varia: alcune persone riferiscono episodi isolati seguiti da molti anni senza sintomi, mentre altri hanno gruppi di episodi, e altri ancora hanno episodi sempre più frequenti con l'aumentare dell'età. Alcuni dati suggeriscono che i periodi di remissione generalmente durano più a lungo all'inizio del decorso del disturbo. Il numero di episodi precedenti predice la probabilità di sviluppare un successivo episodio depressivo.
Quali sono le possibili cause? Gli episodi del disturbo depressivo spesso seguono un grave evento psicosociale stressante, come la morte di una persona cara o il divorzio. Tuttavia, gli studi suggeriscono che gli eventi psicosociali (eventi stressanti) possono giocare un ruolo più significativo nel precipitare il primo o il secondo episodio del disturbo depressivo e avere meno importanza per l'esordio degli episodi successivi.
Esistono diverse forme di depressione: per conoscerle nel dettaglio consulta il lemma enciclopedico.
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Allarme depressione: a rischio 1 italiano su 4
La depressione interessa oggi il 10% della popolazione italiana, quindi circa sei milioni di persone. Considerando anche i malati non diagnosticati, il numero cresce: altri 9 milioni di cittadini, il 15% della popolazione. Complessivamente quindi i soggetti che soffrono, in forma più o meno evidente, di depressione sono 15 milioni. Ciò significa che un italiano su quattro è a rischio.
E in futuro le cose non miglioreranno: nel 2020 la depressione sarà la seconda malattia invalidante nel mondo e la prima per diffusione: potrebbe colpire il 20% della popolazione, considerando esclusivamente i pazienti diagnosticati e in cura.
Tutto ciò anche a seguito soprattutto dei cambiamenti negli stili di vita.
Recentemente l’OMS ha pubblicato un aggiornamento sul carico delle 100 più importanti condizioni morbose e di 10 fattori di rischio: tra i disturbi che non hanno un esito fatale, la depressione è risultata la condizione morbosa associata al maggior numero di anni di vita vissuti in condizione di disabilità.
Di recente sono stati pubblicati anche i risultati del primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali comuni in Italia (ESEMeD-WMH). Si è riscontrata una maggiore prevalenza di disturbi, sia depressivi, sia d’ansia, nel Sud e nelle Isole rispetto al Centro e al Nord del paese, e una minor prevalenza di disturbi nella classi di età centrali (24-49 anni). Inoltre poco meno del 40% di coloro che avevano sofferto negli ultimi 12 mesi di un disturbo depressivo hanno sofferto anche di un disturbo d’ansia, mentre circa il 27% di coloro che avevano sofferto di un disturbo d’ansia avevano sofferto anche di un disturbo depressivo. La distimia, cioè l’alterazione persistente dell’umore e dell’affettività in senso depressivo, è risultata fortemente associata alla depressione maggiore. L’ansia in comorbidità con la depressione è risultata quasi sei volte più frequente nelle donne rispetto agli uomini.
Infine, nei 12 mesi precedenti l’intervista utilizzata nella ricerca, solo il 2,9% degli intervistati si era rivolto a un servizio sanitario o specialistico per un problema psicologico. Avevano fatto più frequentemente ricorso ai servizi sanitari le persone affette da un disturbo mentale (17% per i disturbi presenti nell’ultimo anno), e in particolare quelle con più di un disturbo (31%).
Il ricorso ai servizi sanitari è stato più frequente nei disturbi depressivi che nei disturbi d’ansia ed è stato minore nelle persone con scolarità più bassa e maggiore nei vedovi, separati e divorziati. Tra le persone con almeno una diagnosi di disturbo mentale negli ultimi 12 mesi, il 38% ha consultato, per problemi di salute mentale, solo un medico di medicina generale, il 21% solo uno psichiatra, il 6% solo uno psicologo e il 28% sia il medico di medicina generale che uno specialista della salute mentale.
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La depressione? Colpa dei cambiamenti alimentari
Il cambiamento delle abitudini alimentari umane negli ultimi 50 anni potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nella comparsa di alcuni disturbi mentali.
A sostenerlo è un gruppo di ricercatori della Mental Health Foundation statunitense, secondo cui i cibi moderni altererebbero l’equilibrio nutrizionale tradizionale.
La progressiva riduzione del consumo di cibi freschi, e l’aumento di zuccheri e grassi saturi, avrebbero insomma condotto all’aumento di casi di depressione e disturbi mnemonici, ma gli esperti nutrizionisti sostengono che la ricerca non sia conclusiva.
Tuttavia, il dottor Andrew McCulloch, coordinatore della ricerca, afferma che «non è possibile ignorare gli effetti dell’alimentazione sulla salute mentale».
Qualche esempio? La depressione sarebbe associata alla riduzione degli acidi grassi omega-3 contenuti nel pesce fresco, la schizofrenia a bassi livelli di grassi polinsaturi, il morbo di Alzheimer alla carenza di frutta e verdura e l’ADHD, il tanto discusso deficit dell’attenzione, potrebbe essere collegato a disordini nell’assimilazione del ferro.
«Stiamo solo iniziando a comprendere come un organo o una funzionalità possa essere influenzato dai nutrienti derivati dai cibi», commenta McCulloch, «ma alcuni cambiamenti positivi nella dieta dei pazienti sottoposti alla ricerca hanno già prodotto interessanti miglioramenti».
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Depressione e adolescenza: occhio ai bulletti
La depressione cresce sempre più tra gli adolescenti e i ragazzi. I risultati delle principali ricerche sull’età di esordio dei disturbi depressivi, infatti, dimostrano con chiarezza che le prime manifestazioni del problema si collocano nell’infanzia e nell’adolescenza. Questo fatto determina la necessità di intervenire precocemente dal punto di vista terapeutico, una volta effettuata una valutazione diagnostica appropriata, dato che è noto che un intervento precoce può ridurre la gravità e la durata delle manifestazioni depressive e prevenire l’insorgenza di comorbilità con altri disturbi mentali.
Il livello ormonale negli adolescenti risulta essere una delle cause scatenanti l’alterazione del cervello, come anche la loro maggior reazione alle sostanze assunte. Così trova spiegazione il fenomeno del bullismo: si tratta di adolescenti che presentano una depressione repressa, che si manifesta poi in azioni violente e di gruppo. Lo sviluppo dei ragazzi, quindi, si mostra un periodo cruciale per la possibile futura depressione, in quanto è il momento della formazione definitiva dell’encefalo. In un periodo così delicato si conta che quasi un adolescente su cinque sia a rischio.
Gli adolescenti dai 12 ai 19 anni, in particolare, hanno una sensibilità doppia a causa della morfologia del loro cervello, ancora in fase di formazione: la loro maggiore reazione a sostanze di abuso (nicotina, alcol, droghe) è dovuta alle dimensioni maggiori del nucleo accumbens, due volte superiore a quella degli adulti e una volta e mezza a quella dei bambini. Si tratta di un’area minuscola ma fondamentale per l’azione delle droghe, sia di quelle pesanti (cocaina, anfetamina, eroina) che di quelle cosiddette leggere (cannabis e nicotina). Il cervello di un individuo si stabilizza solo intorno ai 20-22 anni nelle ragazze e ai 23-25 anni nei ragazzi, ma la sua morfologia è frutto dello sviluppo precedente. In conclusione, è importante sviluppare programmi di prevenzione e attivare terapie precoci.
Il potenziale depressivo poi dipende anche dall’infanzia e da come il bambino è stato accudito sin dai primi anni di vita. È perciò bene che il bimbo venga coccolato dai genitori e spronato attraverso stimoli positivi che riescano a sviluppare il cervello e non ad atrofizzarlo.
Un’altra variabile psicosociale correlata all’insorgenza della depressione è rappresentata dall’abuso infantile. Sono ormai numerose le ricerche che hanno mostrato come l’esposizione, soprattutto se ripetuta nel tempo, a episodi di abuso fisico o sessuale, o a grave trascuratezza di cure genitoriali (neglect) durante l’infanzia aumenti in maniera significativa il rischio di soffrire di depressione in età adulta.
Va anche sottolineato che alcuni studi, condotti in coppie di fratelli e sorelle, hanno messo in luce che la differenza nei sessi sembra essere correlata più a un diverso stile di risposta alle avversità piuttosto che a una differente frequenza nell’esposizione alle avversità stesse, rappresentate dagli episodi di abuso, che erano complessivamente in numero simile sia nei bambini che nelle bambine: i maschi infatti tendevano a rispondere con una maggiore frequenza di comportamenti esternalizzanti (come l’abuso di sostanze e, a seguire, il bullismo), mentre le femmine con comportamenti internalizzanti.
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Depressione: malattia costosa per lo Stato
Enormi i costi per gestire la depressione, in Italia come all’estero. Nel nostro Paese, in base alle stime della Società Italiana di Psichiatria, sono di oltre 11 miliardi di euro. Senza tener conto del sommerso, cioè di quei nove milioni di soggetti che soffrono del mal di vivere ma a cui il disturbo non è mai stato diagnosticato.
In Gran Bretagna ammontano addirittura a 15 miliardi di euro (9 miliardi di sterline) e si riferiscono sia alle cure dei malati che alle perdite economiche per la mancata presenza sul posto di lavoro. È quanto risulta dallo studio condotto dall’Institute of Psichiatry di Londra e pubblicato di recente sul Journal of Affective Orders.
L’impatto economico della patologia depressiva può essere valutato in termini di costi diretti e indiretti: i primi sono riconducibili al riconoscimento, trattamento, riabilitazione, prevenzione e assistenza a lungo termine del malato. I secondi invece si riferiscono alla perdita di produttività per il soggetto e per le persone a lui vicine impegnate nell’assistenza. Secondo lo studio inglese, le voci che incidono maggiormente sono quelle relative ai costi diretti, che rappresentano circa i due terzi di quelli complessivi (sono i medicinali a rappresentare la spesa principale), mentre la perdita di produttività incide per il terzo restante.
Lo stato depressivo induce il paziente malato a non trovare nessuno stimolo nel lavoro o anche nelle attività del tempo libero. In particolare, la patologia nell’ambito professionale, come emerge da numerosissimi studi, tra cui il lavoro del Department of Family Medicine dell’Università del Michigan, svolto nel 2006, si traduce in un sensibile calo della produttività, che nel complesso genera incomprensioni, svogliatezza e malessere sul posto di lavoro.
Il depresso spesso non ha la voglia o la forza di uscire di casa, pertanto perde giorni di lavoro, che hanno un rilevante costo per le aziende. Uno studio del National Institutes of Mental Health di Boston ha sottolineato che ogni lavoratore americano afflitto da disturbi depressivi perde in media 46,35 giorni lavorativi all’anno. I cittadini USA affetti dal disturbo recano un danno di 14,1 miliardi di dollari all’anno alle imprese del loro Paese.
I dati sugli onerosi costi della depressione per l’individuo e per la società suggeriscono che una priorità di intervento dovrebbe essere data a programmi con l’obiettivo, da un lato, di promuovere nei cittadini una migliore conoscenza della patologia depressiva, dall’altro di migliorare gli standard diagnostici e terapeutici.
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La depressione è donna – Depressione
Depressione: perché colpisce di più le donne?
Donne e depressione: numerosi studi hanno messo in evidenza, oltre alla maggiore incidenza del disturbo rispetto al sesso maschile (il doppio), anche una differenza nel decorso della sindrome, con maggiori tassi di ricadute e recidive.
Diverse le possibili cause del mal di vivere nelle donne. In realtà in età infantile la depressione è più frequente nel sesso maschile che femminile, ma con il menarca il disturbo diventa più comune nel gentil sesso, a causa del crearsi dei cicli mestruali regolati da un equilibrio tra ormoni di tipo estrogenico e progestinico.
Anche un’elevata prevalenza della sindrome premestruale, che si presenta con sintomi sovrapponibili a quelli della depressione, compresa quella post-partum, e dei disturbi dell’umore associati alla menopausa ed alla perimenopausa, dimostra che la delicata regolazione degli equilibri ormonali, propria dell’organismo femminile, può con facilità accrescere il rischio di soffrire di un disturbo dell’umore.
In base alla ricerca condotta su 209 donne nel 2005 e pubblicata sull’American Journal of Obstretics and Ginecology, l’11,5% delle indagate ha manifestato sintomi di depressione durante il periodo di gestazione, il 66,5% sintomi depressivi subito dopo il parto e il 22% una depressione post-partum ritardata (molti mesi dopo la nascita del bambino).
Anche la menopausa è uno dei momenti più delicati: una percentuale di donne depresse con sintomi di menopausa si attesta intorno al 7%, secondo la ricerca pubblicata su Best Practice Research nel 2003. Diversamente, nei maschi estrogeni e progestinici sono presenti in misura minore e quindi minore è la possibilità di cadere nel tunnel della depressione.
Per quanto riguarda lo stato civile, gli uomini coniugati e mai divorziati sembrano presentare tassi di depressione più bassi rispetto alle donne sposate, in particolare con figli. Questo succede per via dell’effetto nocivo che il matrimonio esercita sulla donna, a causa del carico impostole: moglie, madre e casalinga, finanziariamente e psicologicamente dipendente dal partner.
Altro dato interessante: le donne prive di una relazione affettiva profonda e reciproca hanno un rischio quattro volte superiore di soffrire di depressione nel caso di eventi stressanti, rispetto a donne che godono di una vita di coppia soddisfacente. Il rischio di ammalarsi è più marcato tra le donne coniugate rispetto a quelle mai coniugate, ed è elevato tra le donne giovani coniugate con figli piccoli. Le madri prive di supporto nel loro ruolo sono altresì a rischio, così come le donne con figli che hanno anche un lavoro a tempo pieno. In questi casi la spiegazione del maggior rischio di malattia è da far risalire a un conflitto di ruolo e a un sovraccarico di richieste per la donna.
La depressione non risparmia nemmeno la terza età: negli USA il 5,7% della popolazione over 65 soffre di depressione e nelle strutture geriatriche la percentuale sale al 15%, secondo lo studio effettuato dalla Columbia University di New York e pubblicato su Metabolism nel 2005. Le cause sono da ricercare nella solitudine, nell’impossibilità di muoversi, nella perdita del coniuge, in un dissesto economico ma soprattutto nella sensibilità determinata dal nuovo stato psicofisiologico. In base alle stime della Società Italiana di Farmacologia e della Società Italiana di Psichiatria, in Italia gli anziani colpiti da depressione sono circa il 10%.
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Depressione in gravidanza: anche il bimbo ne soffre
Se durante la dolce attesa una donna soffre di depressione, anche il feto viene coinvolto nella stessa sindrome: lo conferma una ricerca condotta nel 2005 su 80 donne incinte con sintomi depressivi dalla Miami School of Medicine e pubblicata sulla rivista scientifica Infant Behavior and Development.
Lo studio indica che i bambini nati da una madre affetta da depressione nel periodo di gestazione piangono e si disperano nella culla più dei bambini nati da donne che non hanno sofferto di questo problema o che hanno avuto sintomi solo nella fase del parto.
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Se la mamma è depressa i figli rischiano disturbi comportamentali
Secondo uno studio del King’s College di Londra, condotto in collaborazione con la Wisconsin University, i bambini di madri depresse corrono un elevato rischio di sviluppare problemi comportamentali.
Utilizzando i dati ottenuti dall’E-Risk Study, una coorte inglese composta da 1.116 coppie di gemelli valutati a 5 e a 7 anni di età, i ricercatori hanno riscontrato che una depressione materna insorta dopo la nascita risultava correlata nel 30% dei casi con un comportamento antisociale del bambino a partire dai 7 anni circa.
Se poi la depressione della madre era associata a un disturbo antisociale della personalità, il rischio per il bambino era ancora più alto.
Le cause di questa correlazione sono due: l’alterazione dell’ambiente protettivo percepito dal bambino, e l’ereditarietà della propensione genetica alla psicopatologia.
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C’è anche quella post-parto – Depressione
Mamma e bimbo: il legame spezzato
Sanihelp.it – È allarme depressione post partum dopo i recenti casi di cronaca di mamme assassine dei propri figli: da mesi ormai i mass media fanno a gara a spiegare in cosa consiste questo fenomeno, conosciuto anche come baby blues. Ma l’aspetto meno indagato della questione riguarda forse il tipo di relazione che si nasconde tra una mamma depressa e il suo neonato, una relazione interrotta all’alba di una vita, come spiega la dottoressa Emanuela Iacchia, psicologa e psicoterapeuta:
«I sistemi percettivi del piccolo funzionano già dalla nascita, e ciò che al neonato risulta più interessante fin da subito sono gli altri esseri umani. In altre parole noi veniamo al mondo già dotati di una impalcatura percettivo-motoria che ci orienta verso l’altro; così, come impariamo a riconoscerci in uno specchio, il bambino diventa consapevole di se stesso specchiandosi negli occhi della madre.
Inoltre ciascuno di noi nasce con un insieme di Sistemi Motivazionali e Comportamentali: il Sistema Motivazionale dell’Attaccamento, e specialmente il rapporto di reciprocità con la propria figura d’attaccamento, consente al bambino di riconoscersi come individuo e di stabilire i primi rapporti con il mondo.
Donald W. Winnicott, pediatra e psicoanalista, scrive che uno sguardo benevolo e accogliente attento dà vita a un bambino buono; uno sguardo adirato dà vita a un bambino ansioso; uno sguardo assente a un bambino solo e triste; uno sguardo spaventoso a un bambino disorientato.
Complementare al Sistema d’Attaccamento è il Sistema dell’Accudimento. Se c’è sintonia tra i due sistemi, cioè il bambino desidera cure (attaccamento) e la madre gliele dà (accudimento), la relazione è sicura.
I bambini che mantengono un buon contatto con la madre mostrano un attaccamento sicuro e, alla riunione con i genitori dopo una separazione, non presentano esitamento o rabbia, ma ricercano attivamente il contatto. La madre è disponibile.
Ma ci sono alcuni casi in cui questo legame si spezza:
Attaccamento ansioso/resistente: caratterizzato da difficoltà di esplorazione e da un forte stress emotivo al momento della separazione. Al ricongiungimento con i genitori il piccolo ha un comportamento ambivalente: cerca il contatto, ma ha difficoltà a calmarsi. La madre è imprevedibile e intrusiva.
Attaccamento evitante: il bambino evita la madre al momento della riunione. La madre è indifferente, rifiutante, ostile.
Attaccamento disorientato/disorganizzato: il bambino è confuso al momento della separazione e disorientato al ricongiungimento. La madre è spaventata e spaventante.
In questi casi il campanello d’allarme è evidente, ed è meglio correre ai ripari prima che sia troppo tardi».
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La mamma triste: il baby blues
Sanihelp.it – Nietzsche diceva: «Tutto nella donna è enigma, e tutto nella donna ha una soluzione: questa si chiama gravidanza».
Diventare mamma non è solo istinto di riproduzione della specie. Significa trasmettere la propria storia, costruire attraverso stimoli fisici e spirituali una persona nuova ma già carica di sogni, desideri, ricordi. Diventare mamma vuol dire anche grande sforzo, da ricordare oltre il giorno della festa della mamma, ma soprattutto vuol dire immensa felicità.
Eppure, al di là della gioia e dell’emozione, l’esperienza positiva della maternità porta con sé un forte carico emotivo, che si traduce spesso in depressione post partum.
Nonostante la sua elevata diffusione, si tratta di un disturbo spesso trascurato e poco conosciuto.
Alla sua origine c’è la combinazione di tre fattori: il corpo, la mente e il contesto familiare.Nonostante la gravidanza abbia in sé tutte le potenzialità di un evento pieno di gioia, la donna si trova improvvisamente a dover affrontare, come in una sorta di passaggio iniziatico, grandi cambiamenti in tutti e tre gli ambiti.
A livello fisico, innanzitutto, l’abbattimento dei livelli di estrogeni, progesterone e cortisolo che si registra subito dopo il parto mette a dura prova l’umore delle neo-mamme. E fa versare all’80% di loro qualche inevitabile lacrima di latte.
Si tratta di un livello di depressione molto lieve e transitorio, noto come baby blues, che si risolve generalmente grazie all’affetto del partner e della famiglia.
A questa condizione normale, però, a volte si sommano altri fattori di rischio, come la predisposizione genetica alla depressione, lo stress eccessivo dovuto a una gravidanza in età troppo giovane o alla mancanza di appoggi (è il caso delle mamme-single o con famiglia lontana), e infine l’abuso di alcol e droghe.
Questi mix esplosivi possono sfociare in depressione puerperale vera e propria (15% delle neomamme globali), o peggio in psicosi puerperali (0,1-0,2% di tutti i parti).
Ma come si può riconoscere la presenza di questi disturbi, soprattutto nelle prime 4 settimane di normale abbassamento dell’umore? La ginecologa e sessuologa Alessandra Graziottin ha stilato, in occasione di un lavoro approfondito sulla depressione post partum, l’elenco dei campanelli d’allarme:
Profondo stato di tristezza e angoscia (umore disforico).
Difficoltà di concentrazione o nel prendere decisioni.
Astenia.
Modificazioni dell’appetito e del sonno.
Ricorrenti pensieri di morte o suicidio.
Sentimenti di inadeguatezza e sensi di colpa nei confronti del figlio.
Ansia eccessiva nei confronti del bambino.
In presenza di questi sintomi, chiedete aiuto al ginecologo: saprà indirizzarvi verso una cura a base di farmaci e psicoterapia, seguita da personale specializzato.
Se invece si tratta solo di baby blues, care mamme, la miglior cura è un compagno affettuoso e presente con voi e con il piccolo: per lui questo cibo affettivo è fondamentale quanto il latte per crescere bene, e il vostro umore migliorerà in fretta.
Tanti auguri!
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Depressione post-natale: il parto cesareo non serve
Sono in molte le mamme che scelgono il cesareo per evitare i problemi post parto come la depressione post-natale. Sfortunatamente non serve a nulla, almeno questo è quanto afferma una ricerca scozzese.
Il gruppo di studio diretto dalla professoressa Deirdre Murphy della University of Dundee in Scozia ha stabilito che il metodo di parto non ha influenza sul rischio di avere una depressione post-natale, un disturbo che interessa il 15% delle madri e compare entro i dodici mesi successivi al parto.
Purtroppo la ricerca non è stata in grado di definire con chiarezza le cause e infatti si propende ancora per un approccio multifattoriale: particolari contesti sociali, gravidanza in giovane età, essere madre per la prima volta ed eventi particolarmente stressanti che accadono nel periodo vicino alla nascita sono solo alcuni dei fattori che possono favorire l’insorgere di questa forma depressiva.
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Neomamme, la carenza di ferro incrina il rapporto col bebè
Sanihelp.it – Senza un adeguato apporto di ferro le neomamme non sono capaci di intrecciare un solido legame con il neonato che cresce, che a sua volta si dimostra più freddo e distaccato.
A dimostrarlo é stata Laura Murray-Kolb dell'Università della Pennsylvania.
Lo studio, presentato alla conferenza Experimental Biology in corso a San Diego, ha preso le mosse da precedenti evidenze sperimentali in cui si era trovata traccia di un legame tra anemia e depressione post-partum.
I ricercatori hanno spiato i comportamenti di 85 neomamme, 64 delle quali carenti di ferro, nei momenti di interazione con i piccoli.
Le mamme con poco ferro sono apparse meno disponibili, più spesso distaccate e annoiate nel rapporto con i figli.
A riprova di questo legame, i ricercatori hanno successivamente somministrato a metà delle mamme carenti di ferro supplementi del prezioso minerale; dopo nove mesi, le uniche mamme a essere ancora distaccate erano quelle che non avevano ricevuto i supplementi.
Inoltre, ha fatto notare Murray-Kolb, anche i loro bimbi mostravano di accusare il distacco materno, comportandosi in modo meno ricettivo e coinvolto rispetto ai coetanei.
«Le neomamme, dunque, dovrebbero tener monitorata la concentrazione di ferro nel sangue e eventualmente correggere una sua carenza», ha concluso Murray-Kolb.
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Sintomi – Depressione
Tristezza o depressione? I sintomi
Lo stato depressivo comprende manifestazioni psichiche, psicomotorie e somatiche. Ne deriva una condizione di sofferenza e dolore che si manifesta con umore depresso, marcata tristezza quasi quotidiana, prevalenza di pensieri e sentimenti negativi, pessimismo, rallentamento dell’ideazione e dell’attività motoria, svalutazione della propria persona e sfiducia nelle propria capacità, perdita di interessi, difficoltà a svolgere le abituali attività, tendenza al pianto, ansia.
In sostanza si tratta di una situazione dominata da sentimenti spiacevoli e negativi riguardanti se stessi e il mondo, con difficoltà a programmare il futuro. Il quadro clinico si configura come un vero e proprio dolore di vivere, che porta il depresso a non riuscire a godersi più nulla della sua vita.
Oltre a questi sintomi primari, normalmente succede che le persone affette da questo disturbo ne presentino altri, quali:
-disturbi neurovegetativi
-alterazione dell’appetito (aumento o diminuzione)
-alterazione dei ritmi del sonno (aumento o diminuzione)
-difficoltà di metabolismo e digestione
-marcato rallentamento motorio o, al contrario, una marcata agitazione
-spiccata affaticabilità
-difficoltà di concentrazione
-tendenza molto forte a incolparsi e svalutarsi
-pensiero ricorrente di suicidio.
Chi è malato di depressione può soffrirne in modo acuto (cioè presenta delle fasi di depressione molto acute e improvvise, che magari tendono a scomparire da sole o con una terapia) oppure costantemente, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.
La depressione non è solo una malattia a sé, con la sua sintomatologia, ma costituisce essa stessa un sintomo presente in altri quadri patologici, anche se tale termine è ormai utilizzato per designare sindromi a sfondo depressivo indipendentemente dalla loro origine o causa.
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Depressione post… trauma?
Solitamente durante la convalescenza da una
commozione cerebrale si consiglia di evitare sport o altre attività che comportino il rischio di traumi: uno dei possibili effetti collaterali sarebbe la
depressione. Altri possibili sintomi della commozione cerebrale sono
disturbi del sonno,
cefalea, affaticamento, torpore e sensibilità al rumore e alla luce.
La dottoressa Lynda Mainwaring, e i suoi collaboratori dell’università di Toronto, stanno però cercando di dimostrare che la depressione conseguente alla commozione cerebrale si risolve entro tre settimane dall’evento, e che se il giorno successivo a un evento commotivo un soggetto si sente un po’ giù, si tratta di un fatto normale che passerà presto.
La Mainwaring e i suoi collaboratori hanno effettuato una valutazione dell’umore di 341 atleti universitari e di 28 studenti delle superiori. L’umore di 16 degli atleti è stato poi valutato nuovamente dopo che avevano riportato una commozione cerebrale, e i risultati sono stati raffrontati.
L’umore degli atleti prima della commozione cerebrale era simile a quello degli altri studenti, ma dopo il trauma aumentavano i sintomi di depressione, confusione e prostrazione.
Durante un’intervista, la Mainwaring ha spiegato che questi risultati indicano che la depressione degli atleti è una delle conseguenze della commozione cerebrale, anche se per la ricercatrice è impossibile stabilire se gli atleti siano depressi a causa di altri fattori, come il fatto di essere temporaneamente esclusi dal gioco.
Dopo una commozione cerebrale ai pazienti si suggerisce un periodo di riposo, in quanto la presenza di questi sintomi indica che nel cervello la situazione non è ancora tornata alla normalità e quindi un altro trauma potrebbe aggravarla ulteriormente.
Inoltre alcuni dei sintomi della commozione cerebrale come l’affaticamento e la confusione rendono le persone più vulnerabili ad altri traumi, come le distorsioni della caviglia, a causa dei riflessi ancora rallentati.
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Depresso? Il tuo cervello si riduce del 50%
Il volume dell’area cerebrale di una persona depressa subisce una riduzione: accade all’ippocampo, il rigonfiamento presente alla base del cervello. Ma anche l’amigdala (la massa di materia grigia posta all’interno dell’emisfero cerebrale), e la corteccia prefrontale (il rivestimento esterno del cervello), che costituiscono le aree maggiormente interessate nella generazione delle emozioni e nella percezione, sono molto sensibili all’insorgenza della depressione e subiscono un’alterazione.
È il cortisolo la sostanza che provoca il cambiamento di ippocampo, amigdala e corteccia prefrontale: lo conferma la ricerca pubblicata dalla rivista scientifica Psychoneuroendocrinology nel 2006: dall’analisi di diciotto soggetti depressi tra i 25 e i 59 anni, è emerso che tutti presentavano altissimi livelli di cortisolo e una riduzione dell’ippocampo, indipendentemente dall’età e dal sesso. Il cortisolo è un ormone steroide sintetizzato dalla corteccia surrenale che influisce positivamente sull’umore; se prodotto in eccesso, però, ha effetti collaterali negativi sull’ippocampo, che può ridursi del 15 – 20%, fino al 50%.
Un dato, questo, che emerge anche dallo studio condotto di recente negli USA dal National Institute of Mental Health del Maryland su 641 soggetti depressi: il volume dell’ippocampo risulta quasi sempre ridotto, fino al 50%. L’alterazione di questo organo, inoltre, può tradursi nella totale atrofizzazione dei neuroni, oltre che in malesseri generali e cambiamenti negativi di umore.
La risposta dell’organismo alla riduzione dell’area cerebrale sembra essere ancora più evidente nello studio del 2006 della Columbia University di New York che, lavorando su un campione di roditori, ha potuto rilevare che la riduzione dell’ippocampo provoca nausea, nervosismo, ansia e disfunzioni sessuali.
Diagnosi – Depressione
Depressione: prima arriva la diagnosi, meglio è
Una diagnosi precoce può significare la salvezza per molti depressi e il primo che può accorgersi dell’insorgere della malattia è il medico di famiglia, in costante contatto con i cittadini. Per questo la SIF, Società Italiana di Farmacologia, insieme alla SIP, Società Italiana di Psichiatria, e alla SIMG, Società Italiana di Medicina Generale, ha deciso di elaborare il primo Protocollo Unico diagnostico a disposizione del medico di medicina generale.
La diagnosi precoce permette di proteggere il cervello da danni morfologici irrimediabili, come la totale atrofizzazione dei neuroni, estremamente grave e difficilmente recuperabile. Purtroppo risulta molto difficile riconoscere i sintomi della malattia, i quali, molto spesso, non vengono collegati al mal di vivere. Quando la malattia non viene riconosciuta dal medico di famiglia, spesso al paziente vengono prescritti ansiolitici che agiscono come effetto tampone senza risolvere il problema e possono creare dipendenza.
La difficoltà della diagnosi nasce dalle dichiarazioni dei pazienti che riferiscono malesseri che sono in realtà una somatizzazione del mal di vivere: un fenomeno, questo, che nasce nel cervello e si sposta nelle zone periferiche, generando così stati d’ansia nel malato, che da solo non riconosce la depressione. Questa malattia, infatti, si manifesta principalmente con diversi sintomi, non spiegati, che vengono osservati nei seguenti ambulatori: gastroenterologia (54%), neurologia (50%), cardiologia (34%), reumatologia (33%) e ortopedia (30%), come risulta dalla ricerca pubblicata di recente sul British Medical Journal.
Oltre il 50% dei pazienti depressi prova dolore: le localizzazioni più frequenti sono la testa (60%), il dorso (28%), il torace/addome (20%), il collo (11%), le articolazioni (9%) e le spalle (8%), come risulta da un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica American Journal of Psychiatry.
Il legame tra sintomo psichico e fisico sembra essere molto forte, tanto che l’American Psychiatric Association, nel 2000, ha redatto un elenco delle principali connessioni: fra i sintomi psichici più diffusi annovera il pessimo umore, la debolezza, la bassa autostima, alcuni disturbi di memoria, l’ansia e la difficoltà di concentrazione; a essi si legano cefalea, insonnia, affaticamento, vertigini, dolori addominali, disturbi gastrointestinali e disfunzioni della sfera sessuale.
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Depressione: il Protocollo Unico per la diagnosi precoce
È ai nastri di partenza il progetto Idolum (Identificazione Dolore e Umore), promosso dalla SIF, Società Italiana di Farmacologia, dalla SIP, Società Italiana di Psichiatria, e dalla SIMG, Società Italiana di Medicina Generale, per la diagnosi precoce e la cura tempestiva della depressione.
Si tratta di uno studio basato su un Protocollo Unico, il primo redatto da tutti gli specialisti, a disposizione dei medici di famiglia: è uno strumento pratico per indagare la mente dell’assistito e dovrebbe permettere di comprendere la reale percezione della qualità di vita da parte dei soggetti a rischio depressivo. Prevede un questionario per il paziente, con cui verranno analizzati umore, sintomi e terapie.
Sono 1.600 i cittadini coinvolti nell’iniziativa che fanno riferimento a 160 ambulatori di medici di famiglia. Tra dodici mesi saranno formulate delle valutazioni su numero e tipologia delle malattie diagnosticate.
«Grazie a questo progetto, il primo in Italia, sarà possibile usare nuove variabili su cui focalizzare gli interventi della Medicina Generale a favore del paziente – illustra il professor Giovanni Biggio, Presidente SIF, Società Italiana di Farmacologia – Il protocollo fornirà al medico di famiglia specifici criteri diagnostici e terapeutici, oltre che sugli effetti collaterali degli psicofarmaci, sui sintomi del disturbo e sul linguaggio del corpo del paziente».
«Sensazioni di dolore, anche vaghe, riferite al medico o emerse nel corso di una visita, potranno quindi venire considerate come predizioni cliniche di una sottostante situazione depressiva o ansiosa – precisa il professor Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale – Inoltre, dal momento che la maggior parte dei pazienti affetti da disturbo dell’umore si rivolge a medici di medicina generale, il ruolo che svolgono questi ultimi è critico per uno screening di massima, per anticipare o migliorare la diagnosi».
«Quando si tratta di fattori psicologici come la percezione di sé e l’aspettativa rispetto alle cure, solo il soggetto è in grado di farlo. Compilando il questionario quindi il paziente fornirà un importante contributo alla diagnosi e alla terapia», aggiungono il professor Mariano Bassi e il professor Eugenio Aguglia, Presidente e Past President SIP, Società Italiana di Psichiatria.
A ciascun soggetto coinvolto sarà consegnato un questionario con domande a risposta chiusa, volte a comprendere se il soggetto presenta qualche sintomo sospetto, a cominciare dalle capacità di movimento fino alla cura della persona, spronando il soggetto ad autovalutarsi attraverso una panoramica dei disturbi e della vita quotidiana. Nel questionario si cerca di mettere in luce, mediante un’anamnesi completa, eventuali trascorsi facendo emergere episodi depressivi nascosti.
Anche ai medici di famiglia sarà sottoposto un questionario che permetterà uno screening dell’attività in relazione ai problemi degli assistiti. I quesiti riguardano sia l’osservazione delle patologie lamentate dai pazienti che la constatazione dell’entità della malattia, la sua dimensione e l’incidenza di motivi psicologici sull’insorgere dei sintomi.
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Contro la depressione misura la pressione
Misurare periodicamente la pressione arteriosa può essere l’arma vincente per evitare la depressione.
È quanto emerge dalla prima giornata di lavori del congresso medico internazionale Vas-Cog 2005, sulle complicanze psico-cognitive della malattia vascolare cerebrale e dell’ictus, in programma a Firenze fino a domenica prossima, a cui partecipano 900 esperti provenienti da 38 paesi.
Il termine depressione vascolare, ovvero il rapporto tra depressione e pressione arteriosa, é stato coniato dal medico statunitense George Alexopoulos, che ha per la prima volta segnalato la presenza di alterazioni dei piccoli vasi cerebrali in molti pazienti anziani depressi.
«La depressione, in molte persone anziane, oltre che all’isolamento può essere dovuta a fattori vascolari cerebrali su cui l’ipertensione arteriosa ha un ruolo dominante», ha spiegato il presidente del congresso Domenico Inzitari, della Clinica neurologica III di Careggi.
Il controllo periodico e la cura della pressione quindi possono contribuire a fare invecchiare meglio tante persone. Preoccupazione, pessimismo e cattivo umore potrebbero lasciare spazio così a serenità e ottimismo.
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Cura e Terapia – Depressione
Curare la depressione su tre livelli
Per curare la depressione servono almeno due anni. La terapia prevede tre fasi: la prima (un mese) per il riconoscimento dei sintomi; la seconda (5-6 mesi) dedicata al mantenimento della terapia (i risultati appaiono già dopo tre mesi); la terza (almeno un anno) per evitare ricadute. Così è possibile arrivare alla remissione completa, cioè la guarigione.
Il trattamento è sia farmacologico che psicosociale, anche se, quando il paziente interrompe l’assunzione di farmaci, presenta degli sbalzi d’umore dato che il cervello, pur non avendo maturato una dipendenza, avverte il cambiamento. Il supporto psicologico dei medici e della famiglia diventa ancora più importante.
Uno dei pericoli maggiori è la recidiva, ovvero il rischio di ricaduta: anche se nelle prime 6 -12 settimane è ravvisabile un miglioramento del paziente in cura, in realtà il rischio che la malattia si manifesti di nuovo è elevato. Secondo lo studio Essential Psychoph del 2002, il rischio di ricaduta del paziente in caso di trattamento interrotto precocemente è tre volte superiore rispetto a chi completa la terapia. Anche lo studio del 2006 della Columbia University di New York, effettuato sui roditori, ha dimostrato che la recidiva risulta essere molto grave: per questo non si devono sopravvalutare repentini miglioramenti ma è necessario proseguire la cura.
Non bastano pochi mesi per guarire definitivamente: la terapia deve durare più di un anno, quasi due; non si esclude che un soggetto debba curarsi anche per tutta la vita.
1. Terapia farmacologica. Prevede l’assunzione di antidepressivi che aiutano a irrobustire i neuroni indeboliti dalla depressione. Come per una banale influenza, è necessario recuperare integralmente dalla malattia per avere di nuovo neuroni efficienti. Ciò accade al termine del trattamento completo.
Vengono impiegate numerose classi di antidepressivi, tutte di comprovata efficacia. Nelle forme resistenti possono essere utilizzate associazioni con stabilizzanti dell’umore e in alcuni casi con ormoni tiroidei. Recentemente alcuni clinici utilizzano farmaci antiparkinson (pramipexolo) per la loro azione favorente la trasmissione dopaminergica, tuttavia non vi sono ancora sufficienti dati per sostenere l’azione antidepressiva di tali molecole. L’uso di antipsicotici, in associazione agli antidepressivi, è giustificata nei casi in cui il quadro depressivo si presenta con sintomi psicotici.
2. Terapia psicosociale. L’uso di farmaci da solo non è sufficiente: è fondamentale il sostegno da parte dei familiari e anche di personale specializzato che possono sollevare il soggetto depresso da situazioni che lo gettano in stati d’ansia o lo fanno vivere male. In questo contesto il ruolo del medico di famiglia è di primaria importanza: deve incoraggiare i familiari a stare vicino al malato e ad affiancarlo anche nei momenti di maggiore sconforto, per evitare il rischio di ricadute.
3. Terapie alternative. Alla terapia farmacologica è possibile affiancare metodi di cura alternativi, che possono rappresentare validi supporti, come la cronoterapia, basata sull’alternanza regolare sonno/veglia, oppure la terapia della luce, cioè la prolungata esposizione del malato alla luce solare.
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Una cura concreta per depressione, disturbi del sonno e …
La psicologia si è sempre occupata dei problemi emotivi, con risultati non sempre entusiasmanti. Un nuovo, efficace approccio arriva negli anni Sessanta, con il modello cognitivo-comportamentale, che postula come molti dei nostri problemi siano influenzati da ciò che facciamo e pensiamo nel presente. Questo vuol dire che agendo attivamente ed energicamente sui nostri pensieri e sui nostri comportamenti attuali, possiamo liberarci da molti problemi.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale (PCC) sta assumendo oggi il ruolo di trattamento psicologico d’elezione per la stragrande maggioranza dei problemi emotivi e comportamentali. Si tratta di una disciplina scientificamente fondata, la cui validità è suffragata da centinaia di studi, per la diagnosi e la cura di diversi disturbi, tra cui: depressione, disturbo bipolare, ansia, fobie, attacchi di panico, ipocondria, disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia); disfunzioni sessuali, dipendenze da sostanze, disturbi della personalità, difficoltà di relazione, disturbi del sonno ecc.
Come suggerisce il termine, la PCC combina due psicoterapie: comportamentale, che aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento di nuove modalità di reazione, e cognitiva, che aiuta a individuare certi pensieri ricorrenti, schemi di ragionamento e di interpretazione della realtà, che sono concomitanti alle forti e persistenti emozioni negative che vengono percepite come sintomi e ne sono la causa, a correggerli, ad arricchirli, a integrarli con altri pensieri più funzionali al benessere della persona.
I vantaggi della PCC sono diversi:
1. Si prefigge di risolvere problemi psicologici concreti: riduzione dei sintomi depressivi, eliminazione degli attacchi di panico e della eventuale concomitante agorafobia, riduzione o eliminazione dei rituali compulsivi o delle malsane abitudini alimentari, promozione delle relazioni con gli altri, diminuzione dell'isolamento sociale, e cosi via.
2. È centrata sul qui e ora: è centrata sul presente e sul futuro e mira a ottenere dei cambiamenti positivi, ad aiutare il paziente a uscire dalla trappola piuttosto che a spiegargli come ci è entrato.
3. È a breve termine: la durata della terapia varia di solito dai tre ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale.
4. È attiva e collaborativa: sia il paziente che il terapeuta giocano un ruolo attivo nella terapia. Il terapeuta cerca di insegnare al paziente ciò che si conosce dei suoi problemi e delle possibili soluzioni. Il paziente, a sua volta, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica le strategie apprese in terapia, svolgendo dei compiti che gli vengono assegnati volta volta.
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Cerotto antidepressione sì, ma a rischio suicidio
La Food and Drug Administration statunitense ha dato via libera, con una serie di avvertenze, al primo cerotto contro la depressione.
Il presidio, commercializzato dalla Bristol Myers Squib con un vistoso avvertimento sui rischi di suicidio per gli adolescenti, servirà a somministrare in modo meno aggressivo un farmaco, la selegiline, usato dal 1989 contro il morbo di Parkinson.
Altre avvertenze riguarderanno il consumo con cibi come le fave e il salame, bevande come il vino rosso e la birra alla spina e con altri farmaci, la cui interazione con la selegiline potrebbe essere nociva.
Usualmente questo tipo di farmaco viene impiegato quando il paziente non risponde ad altre terapie con i più comuni Prozac, Zoloft e Paxil.
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Psicoterapia per disturbi bipolari
Nell’ultimo decennio del secolo scorso è cresciuto l’interesse nei confronti dei cosiddetti disturbi bipolari, in cui cioè convivono episodi di elevazione dell’umore (iperattività, esaltazione di sé, energia inesauribile, scarso bisogno di sonno) e momenti di calo umorale e depressione.
Recentemente si è convalidata l’idea di supportare la terapia farmacologica, elemento ineliminabile (e che dura tutta la vita) del trattamento, con interventi psicosociali di impostazione cognitivo-comportamentale.
Questo importante passo avanti nella cura dei disturbi bipolari è stato ufficializzato durante un importante convegno tenutosi a Milano ai primi di maggio: si tratta del XIII Congresso Nazionale AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva) e del IX Congresso Latini Dies.
Ma come si è arrivati a questa convinzione? Diversi motivi spingono a cercare metodi aggiuntivi d’intervento rispetto ai farmaci:
- intolleranza ai farmaci: costituisce una delle cause più frequenti di ospedalizzazione e di suicidio
- conseguenze psico-sociali: difficoltà di trovare lavoro dopo l’ospedalizzazione, discriminazione e marchio indelebile da parte di familiari, amici e colleghi
- rischio suicidario: è la conseguenza di sintomi residui, ricadute, difficoltà a mantenere il lavoro e i rapporti sociali (il suicidio, dopo le malattie cardiovascolari, è la causa di morte più frequente nei pazienti con disturbi bipolari).
Davide Dettore, associato di Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Firenze e Presidente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale dell’Istituto Miller di Genova, spiega quali sono le peculiarità della terapia cognitivo-comportamentale:
«Questa terapia è innovativa perché:
- coinvolge i pazienti e i loro familiari come partecipanti attivi alla terapia
- riconosce e cerca di ridurre i fattori di ricaduta (sonno inadeguato, uso di farmaci come anabolizzanti, antidepressivi o allucinogeni, disturbi organici, conflitti familiari, stress ecc.)
- promuove la tollerabilità alla farmacoterapia
- offre un’adeguata relazione terapeutica (counselling da parte del medico, psicoterapia di gruppo ecc.)
- favorisce l’adattamento sociale e lavorativo
- riduce il rischio di suicidio.
L’efficacia di questa terapia è stata valutata in 14 studi cha vanno dal 1984 al 2005: nella maggioranza dei casi si è avuto un significativo cambiamento in meglio».
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A Torino primo intervento chirurgico per curare depressione
È stato effettuato a Torino, presso l’ospedale Molinette, il primo intervento chirurgico di stimolazione del nervo vago (VNS) per la cura della depressione maggiore grave e resistente alle cure farmacologiche.
L’intervento consiste nell’impianto, a livello del collo, di un elettrodo intorno al nervo vago, poi connesso a uno stimolatore di ridotte dimensioni (tipo pace-maker) posizionato a livello della regione pettorale. Questo tipo di cura ha l’autorizzazione dell’Unione Europea ed è stata approvata negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration nel luglio 2005.
I dati forniti dalla letteratura scientifica internazionale sulla stimolazione chirurgica del nervo vago, come terapia aggiuntiva nella depressione maggiore resistente ai tradizionali trattamenti, hanno evidenziato che:
1. Sono selezionabili esclusivamente soggetti affetti da depressione grave e refrattaria ad altre terapie;
2. Oltre il 30% dei pazienti risponde in modo soddisfacente al trattamento chirurgico e si annulla nei pazienti trattati il rischio di suicidio;
3. E’ un intervento generalmente ben tollerato. Gli effetti collaterali post-operatori più diffusi sono lieve raucedine e tosse. Si tratta comunque di disturbi solitamente transitori che possono comparire nelle prime settimane dopo l’intervento;
4. Non sono riferiti effetti di sedazione. Non esiste il rischio di overdose (da superstimolazione), nè effetti teratogeni sul feto nel caso di donne in gravidanza;
5. Il trattamento è reversibile e modulabile.
Va ricordato che la diagnosi di depressione maggiore comprende la categoria dei disturbi depressivi più gravi. Nel corso della vita oltre il 10% degli italiani viene interessato da un episodio di depressione maggiore, ma l’80% dei pazienti con risponde in modo soddisfacente alle terapie convenzionali, farmacologiche e psicoterapeutiche. La possibilità chirurgica è quindi studiata esclusivamente per i pazienti che non rispondono alle cure, il cui quadro sintomatologico è di particolare gravità, con sofferenza intensa ed elevato rischio di suicidio.
Altre cure – Depressione
Depressione: il ruolo degli altri
Avere in casa un malato di depressione crea una serie di interrogativi di non facile risoluzione: come bisogna comportarsi? Come rivolgersi alla persona vittima della malattia senza turbare la sua sensibilità o senza peggiorare la situazione?
Spesso i parenti spronano chi soffre di depressione a reagire. Questo ovviamente in buona fede, senza rendersi conto che ciò tende a far sentire chi ne soffre ancora più in colpa.
L’atteggiamento migliore da tenere è il seguente:
1. aiutare gradatamente, e con tatto, il depresso a riprendere le proprie attività e a riassumere un atteggiamento nei confronti della vita il più normale possibile
2. seguire, dietro consulto medico, un'adeguata terapia farmacologica
3. intraprendere, quando indicata, una psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Attenzione: la depressione è contagiosa. Non è raro che amici, colleghi e persone care, insomma tutti coloro che cercano di aiutare l’amico o il parente depresso, vengano trascinati in una spirale depressiva da cui non si riesce a uscire: è bene porre la dovuta attenzione alla cura del malato per evitare che il fenomeno si ingigantisca e si allarghi anche ad altre persone.
Depressione: una pianta cura come un farmaco
Un gruppo di ricercatori dell’Institute for Medical Research Management and Biometrics di Nurnberg, Germania, ha effettuato uno studio comparativo su 244 persone affette da depressione moderata e severa.
Una parte dei malati è stata trattata con un farmaco tradizionale a base di paroxetina, un’altra con l’erba di San Giovanni, una pianta officinale della famiglia delle ipericacee.
I risultati hanno dimostrato che la paroxetina comporta maggiori effetti collaterali, soprattutto a danno dello stomaco.
«L’erba di San Giovanni», ha detto il co-autore dello studio, dottor Meinhard Kieser, «rappresenta un’efficace alternativa naturale per la cura della depressione, soprattutto se ben tollerata».
Per ora, però, la pianta non è ancora indicata per la cura della depressione dal National Institute for Clinical Excellence inglese, perché non se ne conoscono le dosi precise e gli eventuali effetti collaterali.
Ciò non toglie che la pianta sia stata usata per secoli dalla medicina popolare per lenire ansia e stress, e che sia in vendita in molte erboristerie.
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A chi serve la Pet Therapy?
Sanihelp.it – Il termine pet therapy indica una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo-animale in campo medico e psicologico, che va distinta da tutte quelle attività svolte con l'ausilio degli animali, indicate con la sigla AAA (dall'inglese Animal Assisted Activities), che hanno lo scopo di migliorare la qualità della vita di alcune categorie di persone, quali ad esempio i ciechi o i portatori di handicap fisici.
La pet therapy si propone di affiancare le terapie tradizionali nella cura, per migliorare lo stato di salute di chi si trova in particolari condizioni di disagio attraverso Terapie Assistite dagli Animali (TAA), ovvero interventi mirati a favorire il raggiungimento di funzioni fisiche, sociali, emotive e cognitive.
La pet therapy può essere utilizzata per curare diverse malattie e disabilità fisiche e psichiche. Esistono tuttavia alcune categorie di pazienti che ne traggono particolare beneficio. Ecco quali.
Bambini
I bambini ricoverati in ospedale soffrono spesso di depressione, disturbi del comportamento, del sonno, dell'appetito e dell'enuresi dovuti ai sentimenti di ansia, paura, noia e dolore determinati dalle loro condizioni di salute, e dal fatto di essere costretti al ricovero, lontani dai loro familiari, dalla loro casa, dalle loro abitudini. Alcune recenti esperienze, condotte in Italia su bambini ricoverati in reparti pediatrici nei quali si è svolto un programma di Attività Assistite dagli Animali, dimostrano che la gioia e la curiosità manifestate dai piccoli pazienti durante gli incontri con l'animale consentono di alleviare i sentimenti di disagio dovuti alla degenza, tanto da rendere più sereno il loro approccio con le terapie e con il personale sanitario. Le attività ludiche e ricreative organizzate in compagnia e con lo stimolo degli animali, il dare loro da mangiare, il prenderli in braccio per accarezzarli e coccolarli hanno lo scopo di riunire i bambini, farli rilassare e socializzare tra loro in modo da sollecitare contatti da mantenere durante il periodo più o meno lungo di degenza, migliorare, cioè la qualità della loro vita in quella particolare contingenza.
Anziani
Altre esperienze di Attività Assistite dagli Animali riguardano anziani ospiti di case di riposo. Si è osservato che a periodi di convivenza con animali è corrisposto un generale aumento del buon umore, una maggiore reattività e socievolezza, contatti più facili con i terapisti. Un miglioramento nello stato generale di benessere per chi spesso, a causa della solitudine e della mancanza di affetti, si chiude in se stesso e rifiuta rapporti interpersonali.
Disabili
La pet therapy propone co-terapie dolci, la cui efficacia è stata ampiamente dimostrata, da affiancare alle terapie mediche tradizionali attraverso un preciso protocollo terapeutico, per la cura di pazienti colpiti da disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione, disturbi psicomotori, nevrosi ansiose e depressive, sindrome di Down, sindrome di West, autismo, demenze senili di vario genere e grado, patologie psicotiche, ma anche di quanti necessitano di riabilitazione motoria come chi è affetto da sclerosi multipla o reduce da lunghi periodi di coma. L’intervento degli animali, scelti tra quelli con requisiti adatti a sostenere un compito così importante, è mirato a stimolare l’attenzione, a stabilire un contatto visivo e tattile, un’interazione sia dal punto di vista comunicativo che emozionale, a favorire il rilassamento e a controllare ansia ed eccitazione, ad esercitare la manualità anche per chi ha limitate capacità di movimento, a favorire la mobilitazione degli arti superiori, ad esempio accarezzando l’animale, o di quelli inferiori attraverso la deambulazione con conduzione dell’animale la cui presenza rende gli esercizi riabilitativi meno noiosi e più stimolanti.
Tutti in palestra contro la depressione
Per combattere la depressione, l’esercizio fisico potrebbe rappresentare una terapia alternativa e con effetti immediati anche per i pazienti con disturbi gravi.
Secondo un’indagine della University of Texas di Austin, già una breve passeggiata produce un effetto immediato sull’umore e dà uno stimolo emotivo considerevole.
I ricercatori sono arrivati a questa conclusione dopo aver valutato gli effetti di un moderato livello di attività fisica (30 minuti al giorno) su un gruppo di 40 pazienti affetti da depressione.
Il motivo é in parte fisiologico: probabilmente l’esercizio fisico stimola il rilascio di quei composti chimici, la norepinefrina e la serotonina, che sono anche il bersaglio degli antidepressivi, associandolo alla soddisfazione congitiva derivante dall’idea di tenersi in forma.
Se i pazienti depressi si sforzeranno di uscire di casa per fare esercizio in palestra o semplicemente passeggiare, secondo gli studiosi troveranno un buon modo per tenere sotto controllo la propria malattia giorno, trasformando lo sport in una vera e propria terapia.
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Glossario per Depressione – Enciclopedia medica Sanihelp.it
– Bullismo
Farmaci
– ADEPRIL*30CPR RIV 10MG
– ADEPRIL*30CPR RIV 25MG
– ALPRAZIG*20CPR 0,25MG
– ALPRAZIG*20CPR 0,50MG
– ALPRAZIG*20CPR 1MG
– ALPRAZIG*OS GTT 20ML 0,75MG/ML
– ALPRAZOLAM EG*20CPR 0,25MG
– ALPRAZOLAM EG*20CPR 0,50MG
– ALPRAZOLAM EG*20CPR 1MG
– ALPRAZOLAM EG*OS GTT 20ML
– ALPRAZOLAM SANDOZ*20CPR 0,25MG
– ALPRAZOLAM SANDOZ*20CPR 0,5MG
– ALPRAZOLAM SANDOZ*20CPR 1MG
– ANAFRANIL*20CPR DIV 75MG R.P.
– ANAFRANIL*20CPR RIV 25MG
– ANAFRANIL*50CPR RIV 10MG
– ANAFRANIL*IM IV 5F 2ML 25MG
– AXIL*10BUST 800MG
– AXIL*OS 10FL 400MG 7ML
– AZUR*28CPS 20MG
– CARBOLITHIUM*50CPS 150MG
– CARBOLITHIUM*50CPS 300MG
– CITALOPRAM EG*14CPR RIV 40MG
– CITALOPRAM EG*28CPR RIV 20MG
– CITALOPRAM HEX*14CPR RIV 40MG
– CITALOPRAM HEX*28CPR RIV 20MG
– CITALOPRAM PFI*28CPR RIV 20MG
– CITALOPRAM SAND*14CPR RIV 40MG
– CITALOPRAM SAND*28CPR RIV 20MG
– CLORIFLOX*28CPR SOLUB 20MG
Tag cloud – Riepilogo dei sintomi frequenti
affaticabilità
disturbi dell’ affettività
agitazione
disturbi dell’alimentazione
anoressia
ansia
aumento dell’appetito
diminuzione dell’appetito
disturbi dell’appetito
apprensione
stress
stanchezza
suscettibilità
dimagrimento
disturbi della digestione
depressione