La malattia è anche conosciuta come:
malattia di parkinson, malattia idiopatica di parkison, paralisi agitante, parkinsonismo idiopatico, parkinsonismo primario, sindrome ipocinetica rigida
Il morbo di Parkinson è provocato dalla carenza di un neurotrasmettitore deputato alla regolazione del movimento: da qui l’immagine classica del malato con tremori e rigidità. L’idea che la malattia riguardi solo gli anziani non corrisponde più alla realtà. L’età d’esordio è infatti sempre più giovane. Ma le possibilità di diagnosi precoce e le terapie hanno fatto passi da gigante.
Categoria: Malattie neurologiche
Sigla: MP
Che cos’è – Morbo di Parkinson
Parkinson: non più solo malattia della vecchiaia
Il Morbo di Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale provocato dalla carenza di dopamina, il neurotrasmettitore fondamentale per la regolazione del movimento. Può colpire uomini e donne quasi con la stessa frequenza ed è diffuso in tutti i Paesi del mondo.
È una malattia neurodegenerativa (lo specialista di riferimento è il neurologo), causata dalla progressiva morte delle cellule nervose (neuroni) situate nella cosiddetta sostanza nera, una piccola zona del cervello che, attraverso il neurotrasmettitore dopamina, controlla i movimenti di tutto il corpo. Chi ha il Parkinson, proprio per la progressiva morte dei neuroni, produce sempre meno dopamina, perdendo il controllo del suo corpo. Arrivano così tremori, rigidità, lentezza nei movimenti.
Le cause della malattia sono ancora sconosciute, nonostante sia stata descritta per la prima volta nel 1817 dal dottor James Parkinson.
In Italia i malati di Parkinson sono circa 300.000, per lo più maschi con età d’esordio compresa fra i 59 e i 62 anni. Sebbene è possibile un’insorgenza a qualsiasi età, una sua comparsa è insolita prima dei 40 anni, rara prima dei 20 anni e più frequente dopo i 60 anni, quando possono manifestarsi i primi sintomi.
L’immagine che la malattia riguardi solo le persone anziane non corrisponde più alla realtà. L’età d’esordio del Parkinson si fa, infatti, sempre più giovane (un paziente su 4 ha meno di 50 anni, il 10% ha meno di 40 anni), perché la scienza è oggi in grado di porre una diagnosi ai primi sintomi, quando la malattia è ancora in fase precocissima. Inoltre, si ipotizza che mediamente, rispetto al momento della prima diagnosi, l’inizio del danno cerebrale sia da retrodatare di almeno 6 anni.
Parkinson: tre ordini di cause
La malattia di Parkinson e i parkinsonismi in genere sono patologie neurologiche molto frequenti nell’anziano. I sintomi principali sono il tremore agli arti e la rigidità, causati dalla mancanza di dopamina, un neurotrasmettitore del cervello che regola i movimenti.
Le cause dei parkinsonismi sono solitamente identificabili mentre non è ancora noto l’esatto meccanismo che provoca il calo di dopamina nel Morbo di Parkinson che quindi viene definito idiopatico. La ricerca delle cause della malattia prosegue e attualmente si muove su diversi fronti: biologici, genetici e ambientali.
In campo biologico si ipotizzano vari meccanismi; innanzitutto un processo apoptotico, ossia di morte cellulare, che, per errore genetico, è programmato male. In secondo luogo il deposito nella sostanza nera, struttura in cui viene maggiormente rilasciata dopamina, dei cosiddetti Corpi di Lewy di tipo fibroso e apparentemente dannosi.
Un ruolo importante sembra sia quello dei radicali liberi</a>; la loro azione negativa sui circuiti cerebrali verrebbe attivata o per la diminuita protezione fisiologica provocata dalla carenza di un enzima chiamato Complesso I e/o dall’inibizione dei recettori glutammatergici N-metil-D-aspartato (NMDA) all’interno del nucleo subtalamico.
Anche gli studi in campo genetico si fanno sempre più intensi: sembra ormai assodato il ruolo di alcuni geni quale agente causale nella malattia di Parkinson giovanile che colpisce bambini e adolescenti.
Il gene implicato sembra essere quello della parkina sul cromosoma 6q. La parkina è una proteina simile all’ubiquitina rilevata nel morbo di Parkinson e in altri disturbi neurologici. Le ricerche ora suggeriscono che questo gene potrebbe essere individuato anche in forme che insorgono nei giovani adulti. Il gene tau invece, sul cromosoma 17q21, sembrerebbe avere un ruolo nello sviluppo tardivo della patologia. Il rilievo infine, in alcuni pazienti con sintomi precoci di malattia, di alcune anomalie genetiche che provocano l’accumulo di una proteina detta alfa-sinucleina rafforzano l’ipotesi genetica.
Le possibili cause ambientali hanno invece dimostrato il possibile coinvolgimento di processi infettivi virali nella formazione dei corpi di Lewy, di cui si è fatto cenno in precedenza; per altro lo scatenamento di un parkinsonismo da parte dell’influenza o da virus altrettanto potenti è cosa da tempo nota.
Anche i prodotti chimici industriali sono stati bersaglio di ricerche. Nel 2000 un grosso studio ha dimostrato un’associazione tra esposizione a pesticidi ed erbicidi e aumento nell’ordine del 50-70% del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson. Altre sostanze come ferro, manganese, mercurio, zinco e altre sembrano correlate con una forma reversibile di parkinsonismo.
Infine un cenno all’invecchiamento. Nonostante sia infatti dimostrato che la malattia non è correlata con l’età molto avanzata, si deve comunque rilevare che con il passare degli anni si esauriscono le nostre scorte di dopamina all’interno delle strutture adibite al suo trasporto.
Parkinson: il ruolo dei geni
Secondo ricercatori statunitensi, l’ereditarietà potrebbe giocare un ruolo più importante di quanto si credeva nello sviluppo del morbo di Parkinson, sia nella forma giovanile sia in quella dell’anziano.
Fino a ora la maggior parte degli studi suggerivano che le cause ambientali giocassero un ruolo più importante di quelle genetiche nei pazienti che si ammalavano in età avanzata. I geni erano ritenuti colpevoli nei casi, molto più rari, in cui i pazienti si ammalavano prima dei 40 anni di età. La nuova ricerca mostra invece che i geni sono molto importanti nella forma più comune del morbo.
Scoprire quali geni contribuiscano allo sviluppo della malattia potrebbe, un giorno, permettere l’utilizzo di test predittivi o di trattamenti diversi per la sua cura.
Gli scienziati della Duke University hanno condotto test genetici su centinaia di persone appartenenti a 174 famiglie affette dal morbo, e sono riusciti a mettere in luce alcune mutazioni che sembrano avere un ruolo nello sviluppo del Parkinson. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of the American Medical Association.
Gli scienziati hanno confermato che mutazioni in un gene, conosciuto col nome di Parkin, contribuiscono allo sviluppo della malattia nelle persone sotto i 60 anni. Ma le stesse alterazioni genetiche sono state anche riscontrate in 7 famiglie in cui alcuni membri avevano contratto il morbo in età avanzata, cosa piuttosto sorprendente per i ricercatori. I medici hanno, inoltre, scoperto mutazioni nel cromosoma 9q di nove persone, appartenenti a famiglie diverse, affette da una forma di Parkinson resistente alla comune terapia farmacologia, la Levodopa.
La regione 9q contiene un gene chiamato Torsin A, ritenuto responsabile della distonia idiopatica di torsione, un disturbo del movimento che non risponde alla terapia con Levodopa. Nelle 147 famiglie in cui vi erano persone ammalate di Parkinson a esordio tardivo (la forma più comune della malattia di Parkinson), erano comuni le mutazioni a carico del cromosoma 17q.
Il 17q è vicino ad un altro gene, chiamato Tau. Queste gene è noto per causare due rare forme di malattia di Parkinson. I ricercatori della Duke hanno scoperto che tre mutazioni del gene tau sono strettamente associate allo sviluppo tardivo della malattia.
I ricercatori americani affermano che questo gene potrebbe quindi essere il nuovo target per le ricerche sulla causa e la terapia del morbo di Parkinson.
Attualmente non è possibile sapere quanto siano comuni le mutazioni dei geni Parkin e Tau nella popolazione generale, in quanto non esistono ancora test utilizzabili per questo scopo.
Parkinson: maschi più a rischio per fragilità cromosomica
Il fatto che il morbo di Parkinson si verifica con una incidenza superiore negli uomini rispetto alle donne deriverebbe dalla fragilità di una parte del cromosoma maschile Y.
Un gruppo di ricercatori dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) ha scoperto che la proteina prodotta dal gene SRY, presente solo sul cromosoma maschile Y, oltre che determinare lo sviluppo dell’embrione in senso maschile, svolge un ruolo anche nelle cellule della substantia nigra del cervello, quelle che secernono dopammina, la cui carenza è causa del morbo di Parkinson.
«È la prima volta che viene dimostrato» dice Eric Vilain, coordinatore della ricerca pubblicata su Current Biology «che esistono delle relazioni cruciali tra il sistema ormonale femminile e la minor incidenza delle donne nel contrarre la malattia di Parkinson e che la possibilità di contrastare la malattia è legata alla protezione delle sinapsi, processo che avrà in futuro uno sviluppo biotecnologico molto ampio».
Malattie neurodegenerative: colpa dello stress cellulare
Si sta facendo sempre più concreta l’ipotesi secondo la quale l’insorgenza di gravi affezioni nervose quali Parkinson, Alzheimer, Huntington e Sla potrebbe essere una conseguenza, anche assai lontana nel tempo, di un forte stress ossidativo delle cellule nervose.
Questa nuove ipotesi che spiega le cause genetiche di alcune tra le più gravi sindromi neurodegenerative, è stata formulata di recente da un team di ricercatori associati all’Università californiana di La Jolla e pubblicata dal bollettino interno al Burnham Institute for Medical Research.
L’equipe di neurofisiologi, coordinata da Stuart A. Lipton, avrebbe osservato un accumulo di proteine ossidate nelle cellule del sistema nervoso centrale, che impedirebbe un normale scambio di sostanze vitali per la funzionalità delle sinapsi, portando ad un loro graduale soffocamento.
«Anche se le cellule nervose sono innumerevoli – afferma Stuart A. Lipton – la sproporzione dei materiali accumulati rispetto alle quantità fisiologiche è tale da favorire l’insorgere di molte malattie neurologiche tipiche dell’età senile. Grazie all’impiego di tecnologie ricombinanti di ultima generazione, è stato possibile localizzare le regioni più interessate dall’evento clinico e avviare lo studio di numerose molecole biotech in grado di riconoscere, colpire e sciogliere le cellule ossidate».
Per la prima volta un gruppo di ricercatori del Karolinska Institutet afferma che tenere la memoria allenata potenzia il cervello.
Lo studio pubblicato sulla rivista Science, dimostra come un continuo stimolo all’attività mnemonica possa determinare un aumento del numero dei recettori della dopamina.
La dopamina è un neurotrasmettitore che gioca un ruolo molto importante: concorre alla regolazione del ciclo sonno-veglia, è coinvolto nelle esperienze di gratificazione e nella fisiologia della maggior parte delle malattie degenerative legate all’invecchiamento.
I risultati di questo studio possono consentire un eventuale sviluppo di nuovi trattamenti per le disfunzioni cognitive dovute sia all’invecchiamento, ma anche a ictus o a disturbi da deficit di attenzione.
Mantieni il cervello in forma con sesso, corsa e parole crociate
Fare sesso, correre e fare parole crociate difficili sono tre azioni fondamentali che tengono lontana la formazione di demenza e di altre malattie degenerative. Lo afferma il professor Perry Barlett, autore di uno studio presso il Brain Institute dell’università del Queensland.
Il medico australiano afferma che l’esercizio mentale e fisico aiuta a creare e nutrire le cellule nervose del cervello, preservando la funzionalità e proteggendo da malattie come la demenza e il morbo di Parkinson.
In questo processo interviene un ormone, la prolattina, che viene secreta in particolar modo durante il rapporto sessuale.
Morbo di Parkinson, lo sport riduce il rischio del 60%
Secondo uno studio della Harvard University, un’intensa attività fisica da giovani, qualunque essa sia, protegge gli uomini dal Parkinson.
Lo studio, condotto nell’arco di 14 anni su 48.000 uomini e 77.000 donne, è il primo ad aver indagato in modo esauriente il rapporto tra il tenersi in esercizio e la malattia del sistema nervoso.
Mentre nelle donne il movimento fisico non ha dato effetti particolari rispetto alla prevenzione della malattia, gli uomini che hanno affermato di aver fatto molto moto regolarmente da giovani hanno dimostrato di avere una probabilità di essere colpiti dal morbo di Parkinson molto inferiore (del 60%) rispetto agli uomini sedentari.
Tutto merito della dopamina prodotta facendo movimento, che aiuta a contrastare la degenerazione delle cellule nervose legata alla malattia.
«Ora dobbiamo guardare avanti, proseguendo la ricerca in questo senso», ha detto Robert Meadowcroft, direttore della Parkinson’s Disease Society statunitense.
Dieta – Morbo di Parkinson
Troppo latte aumenta il rischio di Parkinson
Presso l’University of Virginia Health System di Charlottesville è stato condotto uno studio il cui obiettivo è stato quello di esaminare la relazione che intercorre
Esiste, nelle persone di mezza età, una correlazione tra assunzione di calcio attraverso il latte e rischio di insorgenza di malattia di Parkinson.
L’University of Virginia Health System di Charlottesville ha condotto uno studio su 7.504 uomini di età compresa tra i 45 e i 68 anni nell’Honolulu Heart Program.
Nel corso del periodo di follow-up di 30 anni, 128 uomini hanno sviluppato malattia di Parkinson. L’incidenza, aggiustata per età, è aumentata con l’assunzione di latte: da 6,9 casi annui su 10.000 negli uomini che non hanno consumato latte, a 14,9 su 10.000 negli uomini che hanno consumato più di 400 grammi di latte al giorno.
Questo dimostra quindi che l’assunzione di latte è associata a un aumento del rischio di sviluppare la malattia di Parkinson.
Anziani: la ricerca scientifica decreta benefico il caffè
Sanihelp.it – Nell’ambito del Convegno SINU dedicato a Invecchiamento e longevità: evidenze in campo nutrizionale si è parlato del rapporto tra consumo di caffè e salute negli anziani.
Amleto D’Amicis (Dirigente di ricerca INRAN – Istituto Nazionale per la Ricerca sull’Alimentazione e la Nutrizione) ha sottolineato come il rapporto fra caffè e salute vanti numerosi studi epidemiologici che dimostrano la completa assenza di relazione fra il consumo della bevanda e la mortalità in generale nelle varie comunità esaminate. Anzi, la caffeina può addirittura essere un fattore favorevole negli anziani che dopo il pasto hanno un indesiderato calo pressorio; ed è proprio la tazzina post-prandiale a contrastare tale indesiderato evento.
Sono le ricerche più recenti a evidenziare un effetto favorevole della bevanda non solo nei confronti del diabete di tipo 2 ma anche nella prevenzione della malattia di Parkinson.
Negli ultimi anni l’ INRAN ha condotto una serie di studi a lfine di valutare il ruolo e l’azione biologica degli acidi fenolici (caratteristici del caffè) nella modulazione di alcuni fattori di rischio cardiovascolare (capacità antiossidante plasmatica, suscettibilità all’ossidazione di LDL, aggregabilità piastrinica). Questi studi hanno dimostrato che bere una tazza di caffé induce un aumento significativo della concentrazione plasmatica di acidi fenolici cui corrisponde un aumento della capacità antiossidante totale del plasma. Gli acidi fenolici sono anche incorporati nelle LDL e nelle piastrine, ritardandone rispettivamente l’ossidazione e l’aggregazione.
Nella popolazione anziana la somministrazione da 5 a 500mg/kg di caffeina induce attivazione dell’ elettroencefalogramma, percezione di benessere riferita come il sentirsi in forma, efficienti, svegli, ottimisti, motivati a lavorare, desiderosi di socializzare.
In soggetti anziani l’uso abituale del caffè ha evidenziato miglioramenti in test cognitivi; l’assunzione cronica di caffè, protratta per anni, dimostra una ridotta incidenza di malattia di Alzheimer e di Parkinson, per non parlare della riduzione del declino cognitivo legato alla età. Infine esistono evidenze che il caffè prevenga l’insorgenza del diabete di tipo 2 e migliori la resistenza alla insulina</strong>; attività dimostrata anche per il caffè decaffeinato: il diabete è fattore di rischio per la demenza, la resistenza all’insulina si accompagna a deficit cognitivi; la demenza è ipotizzata diabete di tipo 3.
E in ambito digestivo, le patologie epatiche (tra cui l’esordio da epatocarcinoma da cirrosi indotta da Epatite C) sono oggi una realtà non rara nella popolazione anziana. Anche in quest’area i diversi costituenti del caffè hanno un ruolo positivo.
Giovani, sani e belli? Provate con il curry
Sanihelp.it – Il nuovo elisir di eterna giovinezza arriva dall’Oriente, è una spezia giallastra che dona ai cibi un aroma inconfondibile e che, secondo un recente studio, è in grado di contrastare gli effetti del tempo del passa, mantenendo il cervello giovane e sano, a 80 anni come a 20.
Stiamo parlando del curry, sostantivo di origine anglosassone che designa uno dei componenti principali della cucina indiana, una polvere aromatica composta da diversi ingredienti tra cui curcuma, semi di coriandolo, cannella, zenzero, noce moscata, pepe nero, peperoncino, semi di fieno greco e, appunto, foglie di curry.
Da oggi abbiamo un motivo in più per non far mancare nelle nostre ricette questo originalissimo composto vegetale: pare infatti che il curcumino, il pigmento giallo del curry, sia un potente rimedio contro la morte neuronale e l’invecchiamento cerebrale, e scongiuri quindi l’insorgenza di malattie degenerative come l’Alzheimer e il Parkinson. Lo rivela uno studio condotto dal dottor Giovanni Scapagnini, dell’Istituto di Scienze Neurologiche del CNR di Catania, in collaborazione con il Rockefeller Neuroscience Institute di Washington (DC), uno studio attualmente in fase di pubblicazione sulla rivista scientifica internazionale Antioxidant Redox Signalling (volume 3-4 2006).
Una prova? In India, dove il curry è la spezia predominante, utilizzata quotidianamente, sia l’Alzheimer che il Parkinson hanno un’incidenza bassissima: 7 volte meno rispetto a noi.
Il curcumino, spiega il dottor Scapagnini, è un polifenolo estratto dal tumerik (la pianta Curcuma Longa), di cui sono note da anni le proprietà antinfiammatorie, antiossidanti e, più recentemente, antineoplastiche. Considerando la sua discreta biodisponibilità e la scarsa tossicità, si è voluto provare la sua efficacia nella prevenzione delle malattie neurodegenerative, in particolare dell’Alzheimer. Infatti sia il danno ossidativo che i processi infiammatori sono particolarmente elevati nei cervelli di questi pazienti, suggerendo la possibilità di una terapia con un composto antiossidante e antinfiammatorio.
Ma i benefici del curry non finiscono qui. Le sue proprietà sommano le proprietà di tutti i suoi componenti, ai quali, oltre a quelli citati, si possono anche aggiungere i semi di papavero, i semi di senape e i chiodi di garofano.
Secondo la tradizione della medicina ayurvedica, il curry
stimola la digestione
abbrevia il metabolismo
disinfetta blandamente l’intestino
allevia i disturbi della pelle
tratta problemi della vista, dolori reumatici, tosse
aumenta la montata lattea
ha un’azione positiva contro i radicali liberi
riduce gli stati infiammatori (favorisce la produzione del cortisone naturale a opera delle ghiandole adrenaliniche)
protegge il fegato dai residui tossici dei cibi
ha un ottimo effetto sulla circolazione.
Parkinson: abbasso le proteine, via libera alle vitamine
Per sopperire alla carenza di dopamina responsabile dei sintomi del Parkinson, si usa la levodopa, che è un aminoacido aromatico essenziale, precursore naturale per la sintesi della dopamina.
La necessità di una dieta particolare nasce dalla consapevolezza che i pasti possono interferire con l’assorbimento e l’efficacia della terapia e di conseguenza possono peggiorare i sintomi. La levodopa viene metabolizzata a livello intestinale e tutto ciò che rallenta il transito dallo stomaco verso questa sede può diminuirne l’assorbimento; gli enzimi che si trovano nello stomaco infatti possono degradarla diminuendone l’efficacia.
Bisognerà quindi prestare attenzione a:
1. Non assumere troppi alimenti che rallentano la velocità di svuotamento dello stomaco, in particolar modo grassi e proteine (latticini e carni in particolare).
2. Diminuire la quantità di proteine, che, se sono ricche di aminoacidi quali leucina, valina, fenilalanina, triptofano e tirosina rendono ancora più difficile l’utilizzo della levodopa nel sangue.
3. Aumentare i carboidrati, i quali stimolano la produzione di insulina che a sua volta abbassa la quantità di aminoacidi contenuti nelle proteine.
4. Seguire un regime dietetico ricco di vitamine, in particolare E, C e B. Quest’ultima in realtà un tempo era sconsigliata poiché aumentava gli effetti collaterali della terapia; da quando però la levodopa viene somministrata in associazione con altri farmaci tipo gli inibitori delle decarbossilasi, la vitamina B non costituisce più un problema.
Per alcuni pazienti purtroppo non è sufficiente attenersi ai consigli dietetici, ma si rende necessaria l’impostazione di una dieta personalizzata e l’uso di alimenti speciali, detti aproteici che possono facilitare al paziente la preparazione del pasto.
Sintomi – Morbo di Parkinson
Se il tremore delle mani è un sintomo classico della malattia di Parkinson, ce ne sono altri altrettanto importanti da prendere in considerazione. Tutti questi segnali (chiamati primari) spesso, specie in fase precoce, sono sfumati potendosi avvertire solo una sensazione di debolezza e/o di difficoltà nell’iniziare alcuni movimenti. Con l’avanzare della malattia, diventano più importanti.
1. Tremore a riposo. È il sintomo più conosciuto e maggiormente rappresentativo della malattia (il 70% dei pazienti lo riporta). Si tratta di un’oscillazione lenta (cinque o sei volte al secondo). Per meglio comprendere il disturbo, se un vostro parente o amico è affetto dalla malattia, prendetegli le mani e provate ad adagiarle sul suo grembo; noterete la comparsa di un tremore caratterizzato da un’oscillazione lenta che ricorda il movimento tipico di chi conta le monete. Di solito interessa solo una mano e solo dopo mesi o anni può riguardare anche l’altra. Può presentarsi anche un cosiddetto tremore d’azione, che si evidenzia invece quando viene compiuto un gesto volontario come sollevare il bicchiere per bere oppure portare il cucchiaio alla bocca. Altro sintomo riferito è una sensazione di tremore interno, che viene descritta dal paziente ma non è rilevata dall’osservatore.
2. Rigidità. Indica un aumento del tono muscolare a riposo o durante il movimento. Può riguardare gli arti il collo e il tronco, provocando una riduzione delle oscillazioni pendolari delle braccia mentre si cammina, sintomo che viene spesso rilevato da un osservatore. Quando la rigidità prevale sul tremore il malato assume un aspetto particolare, detto camptocormico, ovvero il tronco appare irrigidito e flesso in avanti, mentre le braccia e le ginocchia sono lievemente piegate in avanti.
3. Lentezza dei movimenti. È detta bradicinesia. Si manifesta sia nei movimenti fini, che quindi risultano impacciati, sia in quelli più grossolani come alzarsi dalla sedia, girarsi nel letto o vestirsi. Questo sintomo causa anche una riduzione della mimica facciale, o ipomimia, per cui le espressioni del volto non sono più naturali come prima, ma tendono a essere statiche.
4. Andatura non corretta. Una delle manifestazioni tardive è l’andatura festinante dovuta alla somma di vari sintomi; si manifesta sia con la progressiva riduzione delle oscillazioni delle braccia, sia con la diminuzione della lunghezza dei passi. Nella marcia festinante il soggetto tende a tenere il busto in avanti e ad accelerare la marcia come se inseguisse il proprio baricentro.
5. Disturbi dell’equilibrio e postura scorretta. Questi sintomi appaiono dopo un po’ di tempo. Il disturbo dell’equilibrio è dovuto a una diminuzione dei riflessi che permettono di correggere automaticamente eventuali squilibri. L’incapacità di mantenere una postura eretta può provocare cadute, generalmente in avanti.
In presenza di uno o più di questi campanelli d’allarme la prima cosa da fare è recarsi dal medico e sottoporsi a una visita accurata.
Parkinson: non solo tremori e rigidità
Il Parkinson coincide, nell’immaginario collettivo, con il tremore che colpisce soprattutto una mano del paziente: tutti abbiamo fissato nella memoria le ultime, drammatiche, apparizioni pubbliche di Giovanni Paolo II. Ma soffrire di Parkinson significa avere anche altri problemi.
Oltre ai sintomi primari infatti, che sono i più noti, occorre fare attenzione anche ad altri sintomi, detti secondari e spesso non considerati, che non hanno a che fare con il movimento. Si tratta di:
• disturbi del linguaggio
• disturbi della scrittura, specialmente micrografia, un cambiamento della grafia che diviene caratteristicamente sempre più piccola procedendo nella scrittura
• eccessiva presenza di saliva nella bocca
• gonfiore di piedi e caviglie
• perdita di peso
• depressione, più frequente nelle donne e in chi sviluppa il Parkinson prima dei 50 anni e nella forma resistente al trattamento con antidepressivi, se il paziente ha 60 anni che non ha mai sofferto di tale male in passato
• insonnia, soprattutto disturbi del sonno in fase REM).
Si è scoperto che sintomi banali quali la stipsi, l’iposmia (ridotta sensibilità olfattiva: i cibi sembrano senza sapore) e l’ipotensione ortostatica (sbalzo pressorio quando da seduti ci si alza in piedi) possono precedere i sintomi motori del Parkinson anche di alcuni anni.
In particolare, ben il 70% dei parkinsoniani è affetto da iposmia, sintomo da approfondire soprattutto se colpisce una persona che non soffre di malattie delle vie aeree superiori (se non sporadicamente) e non fuma. Stesso discorso per la stipsi, se risulta resistente a qualsiasi trattamento e non si riesce a spiegarne la causa (la dieta non è cambiata, non ci sono problemi al colon).
Allora, è importante che il medico curante non sottovaluti questi indizi, per quanto banali possano sembrare, soprattutto se non riesce a spiegarli con diagnosi precise. La visita specialistica neurologica, in tutti questi casi, porterà chiarezza.
Parkinson: la diagnosi spesso è in ritardo
Come si scopre il Parkinson al più presto possibile? Con un’accurata visita neurologica che, anche grazie a esami come la risonanza magnetica nucleare all’encefalo e le analisi ematochimiche, innanzitutto esclude tutta una serie di altre patologie che possono avere sintomi simili.
Il problema, però, è che oggi il 25% dei malati di Parkinson non sa di esserlo perché i sintomi sono leggeri e confondibili con altri, e quindi non hanno ottenuto una diagnosi certa: succede soprattutto ai pazienti nella fascia di età 40-50 anni. Per esempio, la rigidità di un arto viene attribuita a cause quali un’infiammazione articolare, reumatismi, postura scorretta. In realtà possono essere i primi segnali della malattia. Il medico di famiglia deve allora abituarsi a pensare anche all’eventualità del Parkinson, nonostante la giovane età del paziente, se i sintomi non trovano sollievo o conferme sulla causa dagli esami.
Il 20% dei pazienti (soprattutto giovani) arriva dal medico solo dopo 2 anni dall’inizio della malattia e deve aspettare in media altri 5-6 mesi per avere la diagnosi definitiva e iniziare la terapia.
Diagnosi più precisa per il Parkinson
Al Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia a Napoli, molti sono gli spazi dedicati alla malattia di Parkinson e ai Parkinsonismi: simposi scientifici (20 %), corsi di aggiornamento (27%) e comunicazioni orali (13 %).
Il Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso, che in Italia colpisce 150.000 soggetti e che se non curata, porta a gravi disabilità.
Le novità riguardano in particolare la diagnosi; nella fase iniziale non sempre si distingue facilmente tra Parkinson e Parkinsonismi atipici: malattie dai sintomi simili, ma con diversa prognosi e meno efficace risposta alla terapia.
Una novità di alto rilievo è l’uso della scintigrafia cardiaca con MIBG per distinguere il Parkinson e i Parkinsonismi. Questa tecnica non invasiva consente di valutare l’integrità dei nervi simpatici post-gangliari che sono danneggiati nel morbo di Parkinson e non nei Parkinsonismi.
Spiega Aldo Quattrone, direttore dell’Istituto di Scienze Neurologiche del Cnr di Cosenza: «È un’indagine molto recente e ancora poco conosciuta dagli stessi neurologi e rappresenta un importante passo avanti rispetto all’indagine tradizionale (DAT scan), utile solo per distinguere la malattia di Parkinson dal Tremore essenziale mentre non permette di distinguere il Parkinson dai Parkinsonismi».
Cura e Terapia – Morbo di Parkinson
Cura del Parkinson: rimpiazzare la dopamina mancante
La malattia di Parkinson è una patologia molto grave che va curata agendo su più fronti, tra cui il trattamento con farmaci.
La malattia di Parkinson determina la perdita dei neuroni che producono dopamina in uno dei diversi circuiti cerebrali che usano questa sostanza come neurotrasmettitore. Pertanto la cura del Parkinson è una cura sostitutiva, perché sostituisce la dopamina cerebrale mancante con la somministrazione di dopamina o analoghi della dopamina.
Poiché questa sostanza non passa la barriera emato-encefalica, dalla fine degli anni ‘60 si usa un precursore della dopamina, la DOPA, un aminoacido naturale che passa la barriera e che nel cervello viene trasformato dall’enzima dopa-decarbossilasi in dopamina. La risposta terapeutica a questa sostanza è clamorosa: in mezz’ora il paziente guarisce da tutti i disturbi caratteristici come rigidità, tremore e rallentamento motorio.
Dopo pochi anni questa cura potentissima determina una sensibilizzazione con esaurimento dell’effetto nel giro di 2-3 ore e comparsa di movimenti involontari, talvolta gravi, nei momenti in cui il paziente è sotto l’effetto della DOPA e quindi è mobile e senza tremore.
Pertanto negli ultimi 10-15 anni si è decisamente esteso l’uso alternativo alla DOPA dei dopaminoagonisti, analoghi della dopamina e capaci di sostituirla egregiamente nel circuito nigro-striatale dove la sostanza manca. Questi farmaci funzionano bene all’inizio della malattia ma poi, nel giro di 2-4 anni, perdono di efficacia e i sintomi parkinsoniani, che si aggravano nel frattempo, non sono più controbilanciati; a questo punto è necessario aggiungere DOPA, seppur in quantità ridotte rispetto a quando veniva usata in via esclusiva.
Oggi, dunque, la terapia dopaminergica consiste nella DOPA e nei dopaminoagonisti, usati generalmente in associazione, con l’esclusione dei pazienti molto anziani e con problemi cognitivi, nei quali si preferisce la monocura con DOPA.
Parkinson: il farmaco che frena la malattia
Sappiamo che i sintomi del Parkinson sono scatenati dalla riduzione della produzione cerebrale del neurotrasmettitore dopamina, e che tale inconveniente cresce con il progredire della malattia. Fino a oggi, la malattia poteva essere combattuta solo a livello dei sintomi, non nella sua progressione.
Una delle nuove frontiere della terapia del Parkinson sta proprio nel cercare non solo di far fronte a sintomi invalidanti quale tremore e rigidità motorie, ma di proteggere le cellule cerebrali dalla progressiva degenerazione che porta, alla fine, anche alla demenza.
Lo studio ADAGIO, che ha coinvolto 1176 pazienti seguiti in 129 centri di cura per il Parkinson ubicati in 14 paesi europei ed è stato presentato in occasione del 12° Congresso dell’European Federation of Neurogical Society, ha dimostrato che rasagilina (Azilect) è la pietra miliare di quella che oggi viene chiamata neuroprotezione, la strategia farmacologica più innovativa, che ha come scopo quello di proteggere il cervello dai danni della malattia, frenandone il decorso. Neuroproteggere significa rallentare, il primo passo verso il traguardo finale: la guarigione. È la prima volta che si dimostra che un farmaco agisce sul decorso di una patologia neurodegenerativa.
Lo studio ha dimostrato che un trattamento precoce con rasagilina garantisce un beneficio clinico maggiore rispetto a coloro che lo hanno iniziato tardivamente. Inoltre, la malattia si sviluppa in modo molto più lento.
Una terapia precoce significa anche intervenire su quelli che l’indagine GfK-Eurisko ha sottolineato come problemi più invalidanti: il dolore, la perdita dell’autonomia, la depressione.
Il 59% degli intervistati prova dolore continuo, il 69% non è più in grado di vestirsi da solo. Invece, chi è in cura afferma che la terapia ha un effetto benefico su tutte le dimensioni della vita quotidiana: movimento, attività abituali, dolore, depressione (colpisce il 68% degli intervistati). Sono soprattutto i pazienti più giovani che appaiono molto soddisfatti degli effetti delle cure, e non a caso. «Diversi studi dimostrano che i fattori di maggiore impatto sulla qualità della vita dei pazienti sono costituiti dalla depressione e dalla sensazione di ridotta indipendenza», dice Giovanni Abruzzese, Ordinario di Neurologia presso l’Università degli Studi di Genova.
Parkinson: farmaco interviene negli stadi precoci
Al 12° Congresso European Federation of Neurological Sciences (EFNS), tenutosi a Madrid dal 23 al 26 agosto, sono stati presentati i dati degli ultimi studi con il farmaco pramipexolo nella cura della Malattia di Parkinson (MP): i benefici clinici del trattamento precoce della MP, la gestione dei sintomi depressivi legati alla Malattia di Parkinson e la nuova formulazione di pramipexolo a lento rilascio, attualmente in studio.
Si è parlato di un nuovo approccio per valutare il rallentamento della progressione clinica nella Malattia di Parkinson. PROUD è il primo studio che confronta i risultati clinici del trattamento in un paziente con Malattia di Parkinson con la densità dei trasportatori di dopamina in alcune aree del cervello, attraverso un braccio di trattamento parallelo allo studio, valutato con SPECT, tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli.
Attualmente, la cura dovrebbe iniziare quando i sintomi si manifestano. Ma lo studio PROUD potrebbe confermare l’importanza di trattare precocemente la malattia per riuscire a rallentarne il decorso. I risultati dello studio dovrebbero essere disponibili nel 2009.
Un altro studio su pramipexolo, condotto in circa 70 centri europei, mira a valutare la gestione dei sintomi depressivi nei pazienti affetti da MP, sintomi spesso poco riconosciuti e conseguentemente poco curati. I dati emersi suggeriscono un positivo effetto di pramipexolo sui sintomi depressivi associati alla MP, oltre all’efficace controllo sui sintomi motori.
Il profilo recettoriale di pramipexolo potrebbe essere responsabile delle possibili proprietà antidepressive di questa molecola, e la ricerca clinica in corso sta studiando nel dettaglio questo aspetto di pramipexolo.
All’EFNS sono stati infine presentati i risultati positivi degli studi di farmacocinetica, fase I, della nuova formulazione giornaliera di pramipexolo e relativo sviluppo clinico di questa nuova formulazione.
Parkinson: l’intervento che stimola il cervello
L’intervento di neurostimolazione è indicato per chi ha una diagnosi di Morbo di Parkinson idiopatico; non risulta efficace nelle forme di parkinsonismo cerebrovascolare, nell’atrofia multisistemica o nelle forme di paralisi sopranucleare progressiva.
I principali candidati a questo tipo di intervento sono persone piuttosto giovani con forme di Parkinson che rispondono male o poco alla terapia farmacologica. La risposta migliore a questo tipo di trattamento infatti si ottiene prima dei 60 anni. È possibile eseguire l’intervento anche a settantanni, ma in questo caso è più difficile ottenere risultati positivi sui sintomi della malattia.
Il sistema di neurostimolazione è composto da un filo metallico molto sottile che termina con un elettrodo dotato di un numero variabile di poli, di solito da uno a quattro, attivabili separatamente come poli negativi o positivi. Se la malattia di Parkinson produce dei sintomi bilaterali, durante l’intervento verrà introdotto un filo metallico dalla parte destra e uno dalla parte sinistra dell’encefalo tramite due piccoli forellini praticati sulla scatola cranica.
L’obiettivo è quello di raggiungere con l’elettrodo il nucleo subtalamico o il nucleo pallido interno o il nucleo ventrale intermedio del talamo. L’elettrodo stimolatore impiantato è fissato alla teca cranica tramite delle vitine e raccordato a un cavetto sottocutaneo a livello del cranio e del collo fino al torace anteriore dove si trova il generatore degli impulsi. Le batterie che generano gli impulsi hanno una durata che va da 3 a 5 anni e vengono regolate in intensità, frequenza e durata da personale specializzato tramite un dispositivo computerizzato.
I rischi dell’intervento sono piuttosto modesti e nella maggior parte dei casi sono reversibili come nel caso del sanguinamento intracerebrale che può provocare disturbi della vista o emiparesi solitamente transitorie. Tuttavia non si esclude che queste emorragie possano essere di entità maggiore e risultare irreversibili. L’aumento del rischio dipende anche dall’età del paziente.
Un altro inconveniente legato all’intervento è il posizionamento impreciso dell’elettrodo che, non stimolando la parte interessata, non apporterebbe miglioramenti della sintomatologia: in questo caso si rende necessario il reintervento per correggere l’ubicazione dello stimolatore.
Questo trattamento neurochirurgico purtroppo è ancora molto costoso. In Italia, per la precisione in Lombardia e in Piemonte, esistono dei centri dove si può godere di un rimborso totale o parziale delle spese.
Psicologia – Morbo di Parkinson
Parkinson e gioco d’azzardo: due facce della stessa medaglia
I farmaci hanno un ruolo fondamentale nel trattamento del morbo di Parkinson perché aiutano i pazienti a superare la rigidità, il rallentamento dei movimenti e il tremore, migliorandone la qualità di vita. La terapia consiste nella somministrazione di dopaminoagonisti e DOPA, un precursore della dopamina.
Recenti fatti di cronaca hanno acceso i riflettori sugli effetti collaterali della terapia dopaminergica. «La dopamina è il neurotrasmettitore del movimento, ma anche del piacere e della motivazione, che sono regolati da un circuito vicino ma diverso da quello nigro-striatale – spiega Ubaldo Bonuccelli, Dipartimento di Neuroscienze Università di Pisa e UO Neurologia Ospedale Versilia USL 12 Toscana – Tale circuito origina dal nucleo tegmentale ventrale e termina nel nucleo accumbens, vero e proprio centro del piacere.
In pazienti predisposti la stimolazione dopaminergica, specie quella operata dai dopaminoagonisti, scatena un disturbo del controllo degli impulsi per cui si sviluppano alcune compulsioni. Gioco d’azzardo, shopping compulsivo, eccessi nel rapporto con il cibo e nella vita sessuale sono le compulsioni riscontrate in una percentuale di circa il 10% dei pazienti».
Ricerche effettuate presso il Centro Parkinson degli ICP di Milano mostrano chiaramente che il gioco d’azzardo è associato a un’eccessiva stimolazione indotta dai farmaci antiparkinson dell’emisfero cerebrale di destra, quello della creatività.
«Questi pazienti sotto trattamento dopaminergico avvertono di nuovo con le attività elencate un piacere che già prima della comparsa dei sintomi era scomparso, perché gli stessi sintomi motori si manifestano quando ormai la malattia si è instaurata e molti neuroni dopaminergici, anche nell’area tegmentale sono andati perduti, e la dopamina si è ridotta – continua l’esperto – Tutto ciò comporta un’attrazione importante e irresistibile verso queste attività.
Il problema, specie con il gioco d’azzardo, è che mentre il paziente avverte il piacere della vincita, che si accompagna a una massiccia scarica di dopamina nell’accumbens, lo stesso paziente non avverte più il dispiacere legato alla perdita, segnata normalmente da un abbassamento della dopamina nell’accumbens, perché l’accumbens è stimolato continuamente dai dopaminoagonisti e dalla DOPA – spiega ancora il professor Bonuccelli – Per cui si assiste a un rinforzo continuo del comportamento, non più frenato dalla perdita: da qui la possibilità di perdere anche somme ingenti.
È compito del neurologo individuare i soggetti a rischio e prevenire lo svilupparsi di questi comportamenti, approfondendo i tratti comportamentali che possono portare poi allo sviluppo di disturbi dell’autocontrollo. Senza dimenticare che esistono anche percorsi di sostegno psicologico sia per i pazienti che per i loro familiari».
Parkinson: il 40% sottovaluta i sintomi psichici
Più dell’80% degli individui affetti dalla malattia di Parkinson è colpito dai sintomi depressivi, ma quasi la metà di loro non ne parla al proprio medico.
A rivelarlo è una nuova indagine sociologica pan-europea, Hidden Face of Parkinson’s Disease, annunciata dall’European Parkinson’s Disease Association (EPDA) in collaborazione con Boehringer Ingelheim.
Il lato oscuro della malattia di Parkinson, ancora oggi poco conosciuto, spesso influisce sulla qualità della vita dei pazienti più dei sintomi motori maggiormente noti, come il tremore.
Ciononostante, l’indagine ha messo in luce una certa difficoltà tra medico e paziente nel confronto su questo tema: in Europa il 97% dei medici specialisti ritiene che la maggioranza dei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson sperimenti «spesso» o «a volte» sintomi depressivi, ma il 49% pensa che questi sintomi siano difficilmente riconoscibili.
Questo è probabilmente correlato a un altro aspetto emerso dallo studio, ovvero che non sempre i pazienti riportano questi sintomi al medico: circa il 40% dei pazienti con la malattia di
Parkinson ha ammesso di soffrire di sintomi depressivi, ma di discuterne con il proprio medico «solo occasionalmente», «raramente» o «mai».
Una maggiore attenzione su questo aspetto, sia in ambito clinico che diagnostico, potrebbe migliorare notevolmente l’impatto della malattia sulla vita di chi ne soffre. Le possibilità terapeutiche, infatti, esistono: secondo una nuova sperimentazione clinica, pubblicata sul Journal of Neurology, gli agonisti della dopamina come il pramipexolo potrebbero avere un effetto antidepressivo nella malattia di Parkinson.
Sebbene si debbano eseguire ancora altre ricerche, questi primi risultati indicano che ci sono buone speranze per il futuro dei pazienti con la malattia di Parkinson colpiti da sintomi depressivi correlati alla malattia e per coloro che se ne prendono cura. Le ricerche in quest’area sono in corso.
Curiosità – Morbo di Parkinson
Parkinson: il futuro è nelle cellule staminali
La speranza del futuro, per la cura del morbo di Parkinson, sono le cellule staminali: cellule staminali adulte della stessa persona possono infatti rigenerare i neuroni morti.
Le cellule staminali si distinguono in cellule staminali embrionali, prelevate da embrioni umani e adulte, trovate in quasi tutti gli organi del nostro corpo, cervello compreso. Il midollo osseo, ovvero il tessuto all’interno delle ossa che produce il sangue è tra gli organi particolarmente ricchi di cellule staminali. Numerose sono le ricerche che dimostrano la capacità di queste cellule di trasformarsi in cellule nervose nuove e ne suggeriscono un ruolo nel meccanismo di riparazione del corpo.
«Al momento sono state avviate delle sperimentazioni su pazienti, ma non dalla scienza ufficiale, anche se queste sperimentazioni sono corrette dal punto di vista scientifico. Tuttavia, ancora non è stato identificato con certezza il tipo di cellula staminale ottimale per la cura di questa malattia – spiega Vania Broccoli, Capo dell’Unità di Cellule staminali e neurogenesi Divisione di Neuroscienze all’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano.
Cellule staminali ematopoietiche, del cordone ombelicale o mesenchimali sono state utilizzate in terapie sperimentali in modelli animali, ma nessuna di queste è stata in grado di dare origine in modo efficiente a neuroni dopaminergici. Dall’altra parte, cellule staminali embrionali hanno invece mostrato una grande propensione a generare neuroni dopaminergici capaci di integrarsi nel cervello e di curare i sintomi neurologici della malattia, almeno negli animali. Tuttavia quest’ultime sono derivate da embrioni e ciò ha aperto una cocente discussione sull’opportunità del loro uso per motivi etico/religiosi.
La Fondazione Grigioni, insieme all’Associazione Italiana Parkinsoniani, ha condotto una ricerca innovativa su una nuova classe di cellule staminali chiamate iPS. Queste cellule sono derivate da un nuovo rivoluzionario procedimento chiamato riprogrammazione diretta che permette di ottenere cellule staminali simili a quelle embrionali direttamente da riprogrammazione dei fibroblasti della pelle adulta.
Tramite l’espressione di tre geni riprogrammatori, fibroblasti cutanei di una persona adulta posso essere riprogrammati in cellule staminali capaci di differenziare in neuroni dopaminergici. Come prova di principio abbiamo dimostrato la capacità delle cellule iPS derivate da fibroblasti di topo di generare neuroni dopaminergici che una volta trapiantati hanno migliorato i sintomi neurologici di ratti parkinsoniani.
La strada è ancora lunga perché è necessario verificare che le cellule umane iPS abbiano simili capacità a quelle derivate dai topolini. L’obiettivo è di generare neuroni dopaminergici da fibroblasti di persone sane e di verificarne la capacità di differenziare in neuroni dopaminergici e di impiantarli in modelli animali sperimentali. Inoltre stiamo generando neuroni dopaminergici da fibroblasti di pazienti in modo da derivare neuroni umani malati con Parkinson da tenere in coltura e creare un modello cellulare umano della malattia che è a tutt’oggi mancante nel mondo.
Quindi, la generazione di neuroni dopaminergici a partire da un semplice prelievo cutaneo porterebbe un enorme passo avanti e permetterebbe di valutare specifiche differenze tra neuroni vitali derivati da pazienti con Parkinson e da controlli».
Stop ai tremori con il mouse amico delle mani
Per chi soffre di tremori alle mani, compiere un’operazione semplice come cliccare con il mouse prima era un problema.
Oggi, invece, esiste uno speciale adattatore, che utilizza una tecnologia simile a quella delle steady cam per filtrare i movimenti e facilizzare l’utilizzo del mouse.
Le persone che soffrono di tremori, associati al morbo di Parkinson ma non solo, sono tante (3 milioni nella sola Inghilterra secondo la National Tremor Foundation), e molte di loro utilizzano il pc per lavorare.
Non si tratta infatti solo di anziani: I tremori essenziali possono colpire a tutte le età. Inoltre calcolando il tasso di invecchiamento della popolazione e l’aumento nella diffusione della tecnologia, anche il numero di nonni al computer aumenterà.
Per loro il nuovo apparecchio, chiamato Assistive Mouse Adapter e creato dal ricercatore IBM Jim Levine, sarà uno strumento importante, perché in grado di riconoscere quando i click multipli sono causati dalla malattia.
Chi ha sperimentato il prototipo garantisce che è in grado di «cambiare la vita», almeno lavorativamente, e per l’abbordabile prezzo di circa 70 dollari.
Parkinson e disfunzione erettile, confermato il legame
Chi soffre di difficoltà di erezione potrebbe avere maggior probabilità di sviluppare il morbo di Parkinson. Il legame fra le due patologie è stato esaminato durante uno studio condotto presso la facoltà di medicina dell’università di Harvard (Boston, Usa) e coordinato dal dottor Xiang Gao della Harvard School of Public Health di Boston.
Questo nuovo studio conferma ancora una volta quanto già riscontrato in ricerche precedenti. Quello che ancora non è chiaro riguarda la successione delle due patologie. Fra le varie teorie vi è quella che la disfunzione erettile potrebbe essere il preludio allo sviluppo della sintomatologia del Parkinson sul sistema nervoso autonomo.
Secondo i ricercatori, il Parkinson colpisce molto frequentemente il sistema nervoso autonomo, una parte del sistema nervoso che controlla le attività viscerali indipendentemente dalla volontà: regola l’azione delle ghiandole, il funzionamento degli apparati respiratorio, circolatorio, digestivo, urinario e genitale, e i muscoli involontari di questi apparati e della pelle. Anche la funzione erettile è controllata dal sistema nervoso autonomo e di conseguenza potrebbe essere compromessa dal morbo di Parkinson.
La disfunzione erettile può avere diverse cause scatenanti. Anche se il più delle volte la sua manifestazione è dovuta a problemi psicologici o a stress, in alcune situazioni le cause possono essere di altra natura: insufficienza venosa, malattie vascolari, diabete, farmaci, squilibri endocrini, traumi e chirurgia pelvica, congestione pelvica. Fra le varie cause ci sono anche quelle neurologiche tra le quali rientra anche il morbo di Parkinson.
A causa delle lesioni del midollo spinale, o celebrale, si possono interrompere anche i circuiti di controllo dell’erezione e degli stimoli sensoriali. In base alle statistiche, circa un terzo delle persone affette dal morbo di Parkinson hanno lamentato dei problemi di disfunzione erettile.
Malattia di Parkinson, una speranza per il futuro
Si chiama Duodopa, ed è una nuova e rivoluzionaria terapia per i malati di Parkinson in fase avanzata, sperimentata per la prima volta in Italia dall’ospedale Molinette di Torino e dalll’ospedale di Alessandria.
I pazienti finora trattati a livello nazionale sono poche decine, ma i risultati sono incoraggianti sia in termini di miglioramento dei blocchi motori e dei movimenti involontari, che per quanto riguarda la qualità della vita. Questa nuova strategia terapeutica permette infatti ai pazienti allettati di poter tornare a deambulare normalmente con la semplice somministrazione di Duodopa.
La nuova formulazione è innovativa anche dal punto di vista della somministrazione, perchè permette un’erogazione continua direttamente a livello del duodeno, e grazie alla consistenza gelificata può comprimere una elevata quantità di farmaco in un piccolo volume.
I risultati della sperimentazione piemontese, coordinata dal professor Leonardo Lopiano e formata dal Centro Parkinson del Dipartimento di Neuroscienze, dal Dipartimento di Gastroenterologia e Nutrizione Clinica e dalla Radiologia Centrale del Molinette di Torino, sarà pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Movement Disorders.
Le evidenze riscontrate aprono grandi speranze, soprattutto in vista delle previsioni per il futuro. Secondo un gruppo di ricercatori della University of Rochester, nei prossimi 25 anni l’incidenza della malattia di Parkinson nelle cinque nazioni più grandi dell’Europa Occidentale (Francia, Spagna, Germania, Regno Unito ed Italia) sarà raddoppiata.
Dalle cellule gliali nuove speranze contro il Parkinson
Nuove speranze per i malati di Parkinson dal fattore di crescita derivato dalle cellule gliali (GDNF).
Uno studio inglese rivela come questo fattore di crescita, che normalmente guida lo sviluppo delle cellule cerebrali di sostegno, stimoli anche la rigenerazione dei neuroni danneggiati dal Parkinson, ovvero quelli che producono il neurotrasmettitore dopamina.
In collaborazione con l’Imperial College di Londra, è stato riesaminato un paziente che, all’età di 62 anni, aveva cominciato un trattamento con GDNF durato 43 mesi.
Dopo due anni di terapia, i test motori avevano evidenziato un miglioramento del 38% nella capacitaà di controllare i movimenti e del 75% nella possibilità di svolgere le attività quotidiane.
Inoltre, gli esami di tomografia a emissione di positroni (PET) avevano mostrato che la produzione di dopamina era aumentata del 91%.
Glossario per Morbo di Parkinson – Enciclopedia medica Sanihelp.it
Farmaci
Tag cloud – Riepilogo dei sintomi frequenti
disturbi dell’appetito
dolore agli arti inferiori
dolore agli arti superiori
autostima scarsa
blocco
dolore al braccio
brachialgia
difficoltà a camminare
claudicatio
claudicazione
cruralgia
disturbi della deambulazione
depressione
diaforesi
disartria
sentimenti di disperazione
distimia
disturbo della fonazione
dolore alla gamba
dolore alle gambe
insonnia
ipersalivazione
ipotensione
alterazione del linguaggio
disturbi del linguaggio
lombosciatalgia
mania
difficoltà dei movimenti
aumento del tono dei muscoli
ipertonia dei muscoli
rigidità dei muscoli
difficoltà nel parlare
impossibilità di parlare
difficoltà della parola
perdita della parola
podagra
pressione bassa
diminuzione della pressione del sangue
difficoltà della pronuncia
ptialismo
rigidità
aumento della produzione di saliva
scialorrea
sciatalgia
sciatica
sonno disturbato
difficoltà a prendere sonno
disturbi del sonno
necessità di sputare
sudorazione
sudorazione notturna
sudori freddi
traspirazione
tremore
calo dell’umore
disturbi dell’umore
alterazioni del viso
zoppicamento