Sanihelp.it – «Ho paura che mio figlio soffra un disagio alimentare, ma non so se è una fase normale dell'adolescenza e se devo intervenire». Risponde il dottor Roberto Ausilio, Psicologo della Salute e Psicoterapeuta Corporeo del Centro Mandala di Orvieto: I problemi con il cibo che un ragazzo o una ragazza possono avere si manifestano a volte in maniera abbastanza evidente. In alcuni casi riscontriamo un rifiuto pressoché assoluto del cibo oppure un comportamento compulsivo con la necessità di mangiare di continuo. In altri casi possiamo assistere a delle abbuffate a cui segue il vomito auto-indotto. In generale possiamo dire che i primi campanelli di allarme riguardano un atteggiamento del ragazzo nei confronti del cibo, che si sposta dall’essere un mezzo di sostentamento e sano piacere per diventare qualcosa di diverso, assumendo un’assoluta importanza e occupando la maggior parte dei pensieri. In altri termini il cibo diviene qualcosa di ossessivo, come una calamita che attira a sé le attenzioni della persona problematica e dunque anche dei suoi familiari. Il cibo e i comportamenti ad esso connessi diventano qualcosa di simbolico, attraverso cui si manifesta un disagio più ampio che ha a che fare con il proprio mondo interiore e le emozioni inconsce.
I campanelli di allarme possono essere diversi: il ragazzo inizia a non mangiare, a rifiutare diversi tipi di cibo, mangia di continuo, si sveglia la notte per mangiare, inizia una dieta ferrea per dimagrire, non si piace fisicamente, si vergogna di mostrare agli altri alcune parti del corpo che reputa brutte o grasse. In generale possiamo dire che ci possono essere segnali di disagio diretti, inerenti cioè il comportamento alimentare vero e proprio, oppure indiretti, come il non piacersi, avere una scarsa autostima, risentire di un senso di vergogna rispetto al proprio corpo, manifestare comportamenti aggressivi o autolesionisti, evitare il contatto con gli altri e con l’altro sesso e manifestare la tendenza a isolarsi per non mettersi in gioco.
Far finta di niente rappresenta in questi casi una vera e propria bomba a orologeria. La politica dello struzzo non è mai utile nei casi di disagio psico-corporeo. Innanzitutto il genitore dovrebbe rispecchiare al figlio quanto vede e manifestare in maniera serena anche la propria preoccupazione. Per far ciò è necessario che i genitori siano in grado di effettuare una comunicazione empatica e attiva con i figli, cosa purtroppo molto rara perché mancano nel nostro Paese dei contesti di apprendimento in cui i genitori possano imparare a dire le cose in maniera utile ed efficace ai propri figli.
Certamente nelle famiglie in cui tra genitori e figli esiste un buono scambio empatico e la comunicazione è sufficientemente fluida, parlare apertamente dell’argomento con il ragazzo può essere molto utile, perché permette di aprire il problema, mentalizzarlo e trovare delle soluzioni insieme. A mio avviso, però, se una famiglia è in grado di far questo da sola, vuol dire che è una famiglia equilibrata e sana ed è estremamente raro che in essa si verifichino grandi problematiche di tipo alimentare. Viceversa, il sintomo del disagio alimentare, indica che qualcosa non funziona proprio nello scambio comunicativo e nelle emozioni di quel sistema. Di solito si verifica un gran minestrone di emozioni in cui ci si scambiano accuse reciproche, non ci si capisce e non si è in grado di fare contatto con l’altro. In questi casi è assolutamente necessario rivolgersi a un bravo psicologo, che sia di sostegno per i genitori e li aiuti a comprendere quali comportamenti e atteggiamenti sono più utili in quella specifica famiglia e circostanza. Da soli non si può fare molto, anzi a mio avviso si rischia solamente di fare danni ulteriori.
Dato che il disagio alimentare nasce, si manifesta e ha un valore simbolico e metaforico nella famiglia, i genitori sono troppo coinvolti per poter fare qualcosa di terapeuticamente valido per il proprio figlio. La cosa migliore è dunque ammettere a se stessi e alla coppia il proprio senso di frustrazione, la propria preoccupazione e i sensi di colpa, prendendo atto della propria impotenza ad affrontare da soli questo problema. Da questa base è utile partire per chiedere l’aiuto di un esperto: uno psicoterapeuta corporeo, sistemico o familiare che aiuti la famiglia a trovare un nuovo equilibrio. Occorre dunque una persona che sia esterna al problema per cogliere con occhi diversi e meno coinvolti tutte le sfumature che sfuggono agli attori del processo. In questo caso la psicoterapia è anche una sorta di rispecchiamento che consente di diventare consapevoli delle proprie modalità di funzionamento per attuare dei piccoli (ma alla lunga sostanziali) cambiamenti di salute.