Sanihelp.it – La sindrome di Down è la causa cromosomica di ritardo mentale più diffusa al mondo: essa infatti interessa tutte le etnie, sia maschi che femmine, e si manifesta con un’incidenza di un caso ogni 1.000 nati vivi.
La sindrome di Down non è una malattia (e di conseguenza non può essere curata) ma è una caratteristica che accompagnerà la persona per tutta la vita, ed è dovuta a una condizione genetica per cui la ventunesima coppia di cromosomi che forma il DNA cellulare, presenta tre cromosomi invece che due, causando la cosiddetta trisomia del cromosoma 21.
La sindrome di Down comporta ritardi di diversa intensità nella quasi totalità degli individui, ritardi che solitamente tendono ad aumentare con il progredire dell’età: ciò significa che la crescita di un bambino con la sindrome di Down avviene semplicemente in maniera più lenta rispetto a quella degli altri bambini, ma che permette comunque di raggiungere, per la maggior parte delle persone con questa sindrome, un buon livello di autonomia personale.
Diversi studi scientifici hanno dimostrato che le disabilità intellettive della sindrome di Down sono in buona parte dovute al deterioramento del fenomeno della neurogenesi, il processo che permette la formazione dei neuroni, e in particolare all’ipotrofia dendritica, ovvero il cattivo funzionamento dei dendriti, i filamenti del neurone che si occupano di trasportare il segnale nervoso.
La maggior parte delle terapie farmacologiche volte a migliorare le prestazioni cognitive nella sindrome di Down, si sono però rivolte alla ricerca di farmaci da somministrare nelle fasi di vita più adulta, tralasciando il fatto che la neurogenesi è un evento principalmente prenatale.
Lo studio presentato dalla professoressa Renata Bartesaghi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie (DIBINEM) dell’Università di Bologna, ha quindi rivolto l’attenzione verso la sperimentazione di un trattamento volto a limitare le difficoltà della neurogenesi già durante la gravidanza, analizzando se sia possibile correggere farmacologicamente la maturazione dendritica tramite interventi precoci.
Dalla decima settimana di gestazione infatti, è già possibile diagnosticare la sindrome di Down con la villocentesi (cioè con il prelievo di villi coriali, il tessuto embrionale della placenta), e dalla sedicesima settimana per mezzo dell'amniocentesi (ovvero tramite il prelievo di un campione di liquido amniotico).
La sperimentazione, attualmente non ancora effettuata su esseri umani, si è rivolta in particolare alla fluoxetina, un antidepressivo di largo uso che favorisce lo sviluppo dendritico nel cervello, con l'obiettivo di stabilire se l’impiego di questo farmaco possa ripristinare la maturazione dendritica e le connessioni neuronali correggendo i disordini cognitivi associati alla sindrome di Down.
I risultati, pubblicati sulla rivista Brain, hanno dimostrato che la terapia farmacologica con fluoxetina effettuata su embrioni di topo, permette il restauro dello sviluppo dendritico, delle sinapsi situate nei circuiti neuronali della corteccia cerebrale (cioè dei collegamenti che connettono i neuroni situati nella sostanza grigia del cervello) e dell'ippocampo, contribuendo inoltre all’evidente recupero di prestazioni comportamentali.
La farmacoterapia con fluoxetina quindi conduce al miglioramento e al ripristino della sviluppo neuronale e delle funzioni cognitive, aprendo nuove strade nell’impiego di questo farmaco per l’ideazione di strategie terapeutiche che possano diminuire le disabilità intellettive nelle persone affette da sindrome di Down.