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Cambiamo rotta

Sanihelp.it – Cambiamo rotta è il primo libro bianco illustrato di voci, bisogni e proposte delle donne con tumore ovarico che è stato presentato di recente al ministero della Salute.


È stato realizzato grazie al contributo di oltre 20 professionisti, tra clinici ed esperti, e alle testimonianze di 9 donne che raccontano il proprio viaggio lungo il percorso di diagnosi e cura.

«È necessario e urgente- afferma la Presidente ACTO Italia, Nicoletta Cerana – promuovere un nuovo cambio di rotta nella gestione del tumore ovarico. Bisogna restare sulle strade buone che ci hanno portato fin qui, ma contemporaneamente aprire nuovi percorsi per continuare ad innovare. Quali? Aumentare l'informazione sulla malattia e sui centri specializzati per promuovere scelte di cura più consapevoli; sostenere la ricerca per la diagnosi precoce che ancora oggi resta una chimera; aprire ai test genomici per rendere possibili le cure personalizzate; cominciare a parlare di sessualità e oncologia, un ambito di bisogni del tutto dimenticato che sta emergendo sempre più forte da parte delle pazienti. Si vive di più anche con il tumore ovarico, di conseguenza è diventato necessario prendersi cura della persona, oltre che curare la malattia».

Il Manifesto ACTO 2.0 sintetizza le sette azioni prioritarie per migliorare la presa in carico globale delle donne con tumore ovarico ed è stato redatto a partire dall'analisi dei loro bisogni e dalle indicazioni dei maggiori clinici ed esperti in quest'ambito.

«Negli ultimi 5 anni- sottolinea la professoressa Nicoletta Colombo, Università Milano-Bicocca, Direttore Programma Ginecologia, Istituto Europeo Oncologia- è accaduto quello che io definisco uno tsunami nel trattamento del carcinoma ovarico: per la prima volta siamo riusciti ad aumentare la percentuale di pazienti potenzialmente guarite. Abbiamo scoperto, infatti, il primo 'bersaglio' del tumore ovarico che può essere colpito con farmaci mirati: si chiama Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD)».

«Il deficit- precisa- è presente nei tumori di tutte le pazienti con mutazioni BRCA e di un altro 25% di pazienti senza mutazioni di questi geni: quindi nella metà dei casi totali. Bisogna perciò garantire due tipi di test: quelli genetici, soprattutto a scopo di prevenzione delle persone sane, e quelli genomici sul tessuto tumorale, come il test HRD, per personalizzare le cure nelle donne malate».

La ricerca di ACTO Italia mostra che meno della metà delle pazienti (45%) accede alla profilazione genomica. C'è inoltre ancora un 12% di pazienti a cui non è stato proposto il test genetico per le mutazioni BRCA.

Ad oggi, però, solo la ricerca delle mutazioni BRCA (test genetico) è nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), mentre la ricerca di HRD (profilazione genomica) non è ancora rimborsata dal Sistema sanitario nazionale.

«Il rischio- sottolinea Umberto Malapelle, Chair del Laboratorio di Patologia Molecolare Predittiva, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università degli Studi Federico II di Napoli- è che non tutte le pazienti possano accedere ai test in modo uniforme sul territorio e, di conseguenza, non abbiano le stesse opportunità di cura. La ricerca, inoltre, procede molto velocemente e, a mio avviso, i Lea dovrebbero prevedere, più in generale, la profilazione genomica estesa, lasciando agli esperti la decisione di quale tipo di strategia utilizzare in relazione al quesito clinico».

I test rappresentano quindi un requisito essenziale per garantire a ogni paziente una strategia terapeutica personalizzata. «I risultati di questa personalizzazione- aggiunge Domenica Lorusso, Professore associato di ostetricia e ginecologia presso Università Cattolica del Sacro Cuore e Responsabile UOC programmazione ricerca clinica presso Fondazione Policlinico Gemelli Irccs – riguardano soprattutto la terapia medica e di mantenimento, e si traducono in una opportunità concreta di attingere a nuove classi di farmaci mirati e a bersaglio molecolare (PARP inibitori, immunoterapie, anticorpi farmaco coniugati) che richiedono una gestione e una presa in carico di un team multidisciplinare. Da qui l'esigenza di identificare i centri oncologici specializzati dove queste pazienti possono essere curate».

Le donne però non ne sono consapevoli: come evidenziano i dati dell'indagine ACTO Italia, infatti, solo il 27% delle pazienti dichiara di aver scelto il proprio centro in base alla specializzazione nel trattamento del carcinoma ovarico. «Questo è un aspetto centrale soprattutto quando parliamo del trattamento chirurgico, che oggi- afferma Giovanni Scambia, Direttore UOC Ginecologia Oncologica – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma- rappresenta la terapia d'elezione in tutte le fasi della malattia: nello stadio iniziale, dove l'intervento e la chemioterapia permettono di raggiungere tassi di guarigione anche dell'80-85%; negli stadi avanzati, dove l'intervento da solo riesce a eradicare la malattia in circa il 60% delle pazienti. Solo i centri specializzati possono infatti garantire anche l'expertise dell'équipe chirurgica».

«Essere curate per il tumore ovarico al meglio delle nostre attuali conoscenze e con le tecnologie più all'avanguardia non può essere una questione di fortuna. E non può e non deve dipendere da dove si vive». È quanto sottolinea Sandro Pignata, Direttore UOC Oncologia Uro-Ginecologica, Istituto Nazionale Tumore IRCSS Fondazione Pascale di Napoli, Coordinatore Scientifico della Rete Oncologica Campana e Presidente del Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer and gynecologic malignancies (MITO). «Ci sono le Linee Guida e- aggiunge- c'è uno strumento attuativo indispensabile che serve ad applicarle: il PDTA, cioè il Percorso Diagnostico-Terapeutico Assistenziale del tumore ovarico. E poiché il nostro Sistema Sanitario è regionale, ogni regione si dovrebbe dotare del PDTA del tumore dell'ovaio».

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